1. Franz Schubert allievo di Salieri
Salieri, da cui andò a lezione fino a tutto il 1817, lo aveva incoraggiato. Il Maestro di corte severo, impassibile, dallo gelido sguardo, parco di complimenti, magro, pallido, quasi ieratico sotto le ciprie i rossetti e i lustrini, ad un certo punto si alzò e gli disse, Franz tu hai talento, sei un poeta della musica, e potrai far onore alla mia scuola, ma devi lasciar stare Schiller e Goethe, che sono grandi poeti, ma scrivono in tedesco, una lingua non adatta alla musica. Se devi musicare versi pensa a quelli di Metastasio, e degli altri poeti italiani, sono gli unici ad essere musicabili, credi a me. Del resto in quel tempo, a Vienna, imperava la musica di Rossini e lo stesso Beethoven (“Rossini e compagni sono i vostri eroi. Sì, sì, così siete voi viennesi. Di me non ne volete più sapere!”) faticava ad imporsi. Ma il giovane timidissimo impacciato goffo Franz aveva una sua volontà, delle sue idee, e non gli diede retta. Perché doveva? In fondo quell’italiano ormai anziano , tutto pelle e ossa , e livida invidia per chiunque avesse genio , dopo cinquant’anni che stava a Vienna ancora non parlava la lingua tedesca, e quando lo faceva era un po’ comico. Antonio Salieri era rimasto “italiano” in tutte le sue manifestazioni, mentre lui, Franz Schubert , era un viennese puro sangue, un viennese integrale che non amava i musicisti italiani (tranne Rossini, che non era però il suo modello) e, forse, gli italiani in genere. Anche il suo amico Franz Doppler disse che a lui di italiano piaceva solo una cosa, il buon vino rosso corallo , e – quando aveva da spendere (raramente) – ne tracannava parecchio sotto gli alberi del boschetto , o sotto i parapetti dell’Himmelpfortgrund ( porta del cielo). Era come un discepolo della Gaia Scienza, e talvolta oltrepassava la misura. Quando lo spirito di Bacco fermentava in lui, si ritirava in un suo cantuccio e si abbandonava a un tranquillo furore, distruggendo tutto ciò che gli capitava sotto le mani, bicchieri, bottiglie, archetti violini e sogni.
Un altro amico, Anselmo Huttenbrenner, ricorda le bevute di birra al “Gatto nero”, oppure al “Lumacone” in Piazza San Pietro e dice che Franz fumava molto… Ma quando eravamo in fondi – dice – si beveva vino rosso italiano, o addirittura del punch, in Weihburggasse. Ma non è vero che sfasciava tutto. Anzi, s’addolciva e ricostruiva le sue architetture interiori. Con un bicchiere di vino, o di punch, Franz diventava piacevolissimo, perdeva quel suo aspetto goffo e campagnolo, da mugnaio del paese, e le sue opinioni musicali erano acute brevi e concise. Coglieva sempre nel segno, come musicista era vent’anni avanti a tutti . Assomigliava in questo al vecchio Beethoven, che nel suo barbarico isolamento sapeva – sorprendentemente – essere molto ironico. E guarda caso , Beethoven fu l’unico che disse (ma sarà vero o si tratta di una leggenda, dato che i due in vita non si incontrarono mai?) che c’era in lui una “scintilla divina”, ma fu comunque un parere che non produsse alcun effetto pratico.
2.Il giardino del padre
Infatti, per Franz, che volle vivere di sola musica, – era la sua ossessione e la sua estasi quotidiana –ci furono solo grandi delusioni e amarezze, e una vita di stenti, da bohémien ante litteram. Gli editori lo snobbarono, il grande pubblico non lo conobbe mai veramente ( “il vento è caduto e abbiamo perso il nostro pubblico”), protettori mecenati non ne ebbe mai (ci fu una parentesi ungherese con il conte Esterhazy in cui Franz fece da maestro di musica delle figliole, e di una delle quali, Carolina , forse s’innamorò, ma fu trattato come il resto della servitù), né era in grado di procurarsi favori, sia per la sua estrema timidezza e goffaggine, sia per la sua musica che fu capita realmente solo molti anni dopo la sua morte . Per cui si trovò sempre fuori – non solo metaforicamente – da ogni recinto e ogni giardino , anche quello dello stesso padre. Era appena un ragazzo quando un giorno il genitore – con cui c’erano stati dissapori (lui lo voleva maestro di scuola, ma a Franz interessava solo la musica) e si erano da poco riconciliati per il funerale della madre – lo condusse nel giardino della loro casa del “ gambero rosso”, e gli disse, Franz , ti piace il mio giardino, guarda com’è pieno di fiori , di alberi da frutto , onesti meli e intense rose rosse . Ma lui non rispose. Lo trovava orrendo quel giardino , pieno di spine aguzze e di ortiche , un mostro logoro dall’occhio rosso. Per la seconda volta, il padre gli chiese, irato, se gli piacesse il giardino. E Franz, tremando, disse No, non mi piace il giardino. Allora il padre lo colpì con un manrovescio pazzesco che gli fece saltare gli occhialini, e lui fuggì. (Per la seconda volta volsi altrove i miei passi e col cuore pieno di infinito amore e dolore andai errando lontano. Cantai canzoni per lunghi anni. Se cantavo l’amore , esso mi diventava dolore. E se cantavo il dolore, esso mi diventava amore). Fuggì com’era fuggito a diciassette anni andando a vivere con l’amico poeta Mayrhofer, in una squallida stanza in subaffitto, un ex seminarista, ex giurista ipocondriaco, un tipo introverso, incline alla più cupa malinconia, ordinato, frugale e semplice fino allo stoicismo, tutto chitarra libri e pipa , con tendenze omosessuali. Di Mayrhofer, Franz avrebbe musicato una ventina di mediocri poesie, anche se lui ne era entusiasta (Le sue poesie sono sempre come un testo a una melodia), ma non aveva una grande capacità critica letteraria. Musicava anche la nota della spesa. Si guardava le mani grassocce, con le dita tozze, che scrivevano la musica con una rapidità incredibile, che muovevano i tasti di quello sgangherato pianoforte che gli aveva regalato il padre quand’era bambino, e diceva, Le mani, le mie mani non hanno lacrime da spargere. Dopo un paio d’anni il loro sodalizio, fatto di privazioni e miserie (spesso non avevano da mangiare, soffrivano terribilmente il freddo, erano sempre senza un soldo bucato, vita da pura boheme) finì. Erano troppo diversi l’uno dall’altro, opposti. Franz era troppo disordinato, rumoroso, con scoppi esagerati sia di gaiezza che di tristezza, e poi era trascurato nel vestire, fumava tutto il giorno e puzzava sempre di tabacco con i denti anneriti dalla nicotina. Ma anche fisicamente stavano agli antipodi. Mayrhofer era alto e magrissimo, col volto scavato ,sofferto ma intenso, ieratico, sempre vestito di nero, il passo agile, elegante nel portamento, mentre Franz era goffo e caricaturale, una “pallottola di grasso”, dice Chèzy, “un fiaccheraio ubriaco”, dice Huttenbrenner. “Piccolo di statura e pingue, con una pancettina prominente, le spalle curve, una selva di capelli irti e cresposi, un volto grasso troppo largo e rotondo, labbra tumide e quasi africane, il naso schiacciato e un po’ camuso , il mento grosso e segnato da una fossetta curiosa. Ma sotto le sopracciglia folte e irsute, dietro gli occhiali a stanghetta – Franz – dice Joseph von Spaun , che era stato con lui nel regio Convitto di Vienna – aveva due occhi splendenti, accesi da una fiamma divina. E quando si metteva al pianoforte, quel pianoforte sgangherato , logoro e fetido che gli aveva regalato il padre, con le sue grosse mani tozze dalle dita corte, e toccava i tasti con tanta maestria, e sapeva far vibrare le corde con squisita inimitabile grazia e passione, e cantava con quella sua voce , voix de compositeur, un misto di tenore leggero e di baritono, semplice, naturale, senza civetteria, il ristretto gruppo di amici che riceveva questo straordinario dono andava letteralmente in estasi. Ma se occorreva, se mancavano le signore , Franz cantava anche con un falsetto assai esteso, cantava la parte di contralto e di soprano, come capitò in casa Salieri quando si cantavano le vecchie partiture della biblioteca di corte.
3. E’stato il più grande musicista viennese
Franz metteva in musica il galoppo del cavallo e l’incalzare del destino del Re degli Elfi, la tempesta che urla nella tenebra e nel cuore della “Giovane monaca” , il mare e il vento che scrosciano e sibilano accanto agli amanti desolati “In riva al mare”, lungo la via senza pace del “Viandante solitario”. E l’Ave Maria?, La morte e la fanciulla?, Rosamunda?, l’Incompiuta? – mi dice il maestro Luigi Solidoro – l’incompiuta con le incomparabili sonorità orchestrali ,le incantevoli sfumature e colorature , le mirabili delicatezze armoniche ,la tenebra e la luce, il dolore e la gioia, i sorrisi e le lagrime, l’amore e la morte, l’estasi divina e il grido di disperazione ? Non c’è dubbio alcuno che sia stato il più grande genio musicale viennese. Maestro, e Mozart? E Beethoven ? E Haydn? Dove li mettiamo? Amico caro , nessuno di loro era viennese, lui sì. Franz lo “schwammerl”, il funghetto, come lo chiamavano i compagni di cordata, per via di quella grossa testa piena di ricci , incassata nel piccolo corpo grasso e un po’ untuoso. Lui era del sobborgo dell’Himmelpfortgrund , e con quei suoi ridicoli occhialini da travet dickensiano, con il suo umore instabile, da arcobaleno nero sopra la notte azzurra , con la sua indole che inclinava verso i sentieri del fior di loto , a una fondamentale malinconia da Danubio blu e da sospiro rassegnato che va di monte e in monte , ha rappresentato meglio di tutti lo spirito viennese dell’epoca, anche se allora pochi se ne accorsero. Ma Franz Schubert rimane per molti – anche oggi – quasi un’incognita musicale. Si eseguono tantissimi compositori, alcuni dei quali anche francamente inutili, invece a distanza di 200 anni molta della sua musica è ancora da scoprire. Direi quasi tutta. Se si escludono un paio di sinfonie, alcune sonate per piano , e ovviamente i lieder, cos’altro conosciamo? Perché tutto ciò, maestro ? Forse Schubert paga la sua collocazione storica, il trovarsi tra il periodo classico-viennese (Mozart Haydn Beethoven), e poi le tempestose cime dei romanticismi, e il quadretto a volte oleografico che ne hanno tracciato molti biografi, a partire dalla seconda metà dell’ottocento. Ma se lei si mette in ascolto della sinfonia n.8 in sì minore, “incompiuta”, capisce come sia stata tragica la sua vita, capisce quanto grande sia stato il suo forte e disperato impegno artistico al quale destinò i più alti messaggi interiori, e subordinò la propria amara vicenda esistenziale. Alla propria irrinunciabile vocazione, che era – come ha detto qualcuno – tutta nei suoi occhi scintillanti, nel suo sguardo teso attento bello, che scopriva pianure monti e mari pur non avendoli mai visti, nell’espressione rapita di chi dimentica se stesso in una funzione suprema, tale da fargli ignorare le dee di tutti gli altri desideri, disertare gli altari della gloria e di ogni altra cosa terrena.
4.La sua musica era piena di sesso imbottigliato
Ma la sua musica – disse Josef Kenner – era piena di “sesso imbottigliato”, è così, maestro?. Vede, la storia ci racconta che per fare musica quasi tutti i grandi musicisti sublimavano la loro sessualità, o si concedevano grandi lussurie per trarne ispirazione. Dice il suo amico Franz von Schober (pittore poeta e libertino di famiglia aristocratica, che influenzò molto Schubert) che chiunque conoscesse “Schubby” sapeva quanto potente fosse la sua avidità di piaceri , – che avvilì la sua psiche fino alla degradazione – e quanto una parte di lui vi soccombesse (Il peccato ha forma di donna, o di giovinetto ancora imberbe?). Allora gli artisti erano permeati di un ideale romantico che, se pur appagante nello spirito, spesso non soddisfaceva la loro parte carnale: per questo molti si innamoravano di donne irraggiungibili, e poi si davano via con qualsiasi prostituta che passava. Oppure praticavano l’omosessualità – con ragazzi minori, a pagamento, – cosa che allora era considerata immorale e inconfessabile, turpe e indicibile, ma tollerata tra le èlites degli intellettuali e degli artisti purché rimanesse nei limiti della clandestinità e segretezza, che è poi un po’ quel che accade oggi, se lei ci riflette bene, al di là delle leggi e dello strombazzamento delle crociate contro i pedofili. In ogni caso la sifilide era spesso l’inevitabile risultato di queste voracità sessuali, e a quel tempo era molto più pericolosa di quanto sia l’AIDS oggi E Franz Schubert morì di sifilide quando non aveva ancora 32 anni, sifilide che contrasse a 26 anni, e tutto ciò incise molto sulla sua musica, che man mano si fa sempre più drammatica, disperata, tragica, senza speranza. E che lui fosse consapevole del suo gravissimo stato di salute , viene testimoniato da una lettera che scrive all’amico Leopold Kupelweiesser l’8 marzo 1824. – Mi sento il più infelice miserabile disperato degli uomini. Pensa ad un uomo la cui salute non si ristabilirà più e che per disperazione peggiora invece di migliorare le cose; pensa ad un uomo le cui speranze luminose si sono annientate, cui la felicità dell’amore e dell’amicizia non offre più nulla se non il più profondo dolore, per il quale l’entusiasmo per la bellezza minaccia di sparire, e ti domando se c’è al mondo un uomo più miserabile infelice e disperato. Quando vado a dormire spero di non svegliarmi più, e ogni mattina mi parla di nuovo del dolore di ieri. Così senza gioia e senza amici io trascorro le mie giornate …Poi aggiunge anche che la “ nostra compagnia”, ossia quella delle famose “schubertiadi “(che in realtà sono state mitizzate solo dopo la sua morte) non c’era più, era morta, disciolta, a causa dell’aumento del “coro grossolano dei bevitori di birra e dei mangiatori di salsicce.”
5. L’incompiuta
E tuttavia in questo grido di dolore ,in questa sorta di “ ricordanze” infelici schubertiane , Franz ancora sognava grandi successi , anche a teatro, considerato che il più grande cantante dell’epoca, Vogel , ormai faceva sodalizio con lui da diversi anni e cantava i suoi stupendi lieder , i cicli della “ Molinara”, del “ Canto del Cigno”, del “Viaggio d’inverno”, un po’ dovunque. Ma erano opere raffinate , non destinate ad un grande pubblico e comunque non erano commerciali (gli editori pagavano male e pochissimo) e neppure tali da poterci campare. Schubert non poteva vivere (e infatti visse malissimo) con la sua attività di musicista nonostante fosse chiaramente un genio, il genio dell’incompiuta. “Vi saranno opere orchestrali più potenti, più grandi, forse, – scrive Mary Tibaldi –, ma nessuna potrà uguagliare l’incanto divino e la grazia celeste dell’Incompiuta di Schubert. E’ come la Pietà Rondanini di Michelangelo, capolavori, perché incompiuti. Essa è una gemma impareggiabile e la sua bellezza è perfetta. In questa pagina sinfonica , scolpita da due grandi movimenti, si raggiunge il massimo del romanticismo sinfonico: le immagini musicali fioriscono da modulazioni di ineffabile dolcezza, colme di incanto melodico e timbrico, e procedono come in dissolvenza in un errabondo ed estatico viaggio che sembra tendere all’infinito. All’inizio piangono il clarinetto e l’oboe, e la musica si sparge nel cuore malinconica , con un senso di pena, un’ombra dolorosa , un’infinita tristezza, finché i contrabbassi e i corni ci riportano la quiete nel cuore, e ci fanno grazia i violoncelli con il loro suono vellutato. La melodia, così semplice, così soave ci prende nel profondo lago dell’anima con un desiderio struggente di sovrumana bellezza e di gioia. La musica incorporea e ineffabile passa su di noi, e vola come la visione di un coro di figure del Beato Angelico nella loro serafica abitudine, nel loro immortale candore. Schubert ci guida nel regno dell’innocenza primordiale, in un mondo di sogno fuor d’ogni spazio e d’ogni tempo, lontano da ogni miseria da ogni bassezza da ogni colpa nel regno della bellezza eterna e dell’eterno mistero”. Ma Franz non l’ascoltò mai eseguita da un orchestra. La donò alla società degli amici della musica di Graz che non la fecero mai eseguire. Solo quarantatre anni dopo la sua creazione, il 1° maggio 1865, il direttore d’orchestra Herbeck di Vienna ebbe la ventura di scoprire la composizione e la fece subito eseguire. In realtà – per concludere, maestro – possiamo dire che tutta la vita di Schubert fu un “incompiuta”? Tutta la sua esistenza è rimasta nell’enigmatica sospensione dei suoi due tempi lontani. Schubert fu un mistero per se stesso, i parenti, gli amici, che tuttavia lo adoravano, e i musicisti, gli intellettuali dell’epoca che contavano non ne capirono la grandezza (Goethe non rispose mai alle sue lettere, lo stesso Salieri che era stato suo maestro e aveva una certa influenza non gli fece avere alcun incarico pubblico) Franz non vide mai il mare in tutta la sua vita, eppure nessuno seppe descriverlo come lui nei suoi famosi lieder e nella sonata per arpeggione (una specie di viola da gamba con sei corde ma che suono aveva?) e pianoforte. Visse di tormenti e di dolori, ancor prima di essere colpito dalla micidiale malattia venerea , e finché visse la sua arte non ebbe nessuna particolare risonanza, tranne nel gruppo ristretto degli amici e di qualche aristocratico con l’hobby del canto come il barone Schonstein, amateur di qualche talento, a cui Franz dedicò l’edizione dei canti de “La bella molinara”.
Solo molto più tardi si parlò di lui come del più grande musicista poeta che sia mai esistito, quando i lieder , canzoni-poetiche , che erano famose solo nella cerchia dei suoi amici , ebbero una valutazione più completa e consapevole. Fu verso la fine dell’ottocento, quando Franz era morto da quasi settant’anni, che i grandi cicli liederistici, disposti in collane pensose, si imposero come capolavori di inedita bellezza. (Anche l’Ave Maria era in origine un lied) Il lied tedesco aveva una secolare tradizione, ma il lied di Schubert è tutto inventato, come se la storia della musica non esistesse. Nessuno prima di lui aveva reso perfettamente in musica la parola parlata, il grido autentico, l’autentico sussurro, potenziati e trasfigurati dall’intonazione musicale, ma sostanzialmente fedeli alla pronuncia prosodica. Ma in genere tutta l’opera cameristica di Schubert è tesa alla ricerca di forme nuove, nascenti da esigenze interne di sviluppo del materiale tematico , tutta l’opera è di assoluta originalità, le composizioni di pianoforte inventano un nuovo modo di trattare l’armonia, che è ad un tempo classicamente irreprensibile e romanticamente inquieto, quartetti e quintetti sono alternative sapienti composizione sulle orme dei classici e compiacimenti improvvisativi che sembrano ammiccare agli amici che li ascoltano. La su musica una volta ascoltata non si può dimenticare, essa scende nel cuore e vi rimane per sempre Schubby sembra ormai salutarci, con quel suo sorriso timido e lo sguardo che scintilla nel crepuscolo: “ Come un estraneo sono comparso/ come un estraneo me ne vado. Per questo viaggio non m’è dato/ di scegliere il tempo/ da me devo trovare la via / in questa oscurità/ M’accompagna l’ombra della luna . Buona notte a tutti. Ed eccolo il piccolo uomo grasso con l’organetto che nessuno ascolta, nessuno vede, i cani gli ringhiano alle caviglie, ma lui indifferente a tutto, lui gira, gira la manovella e l’ organetto mai non tace.
Addio, piccolo grande “schwammerl”!
Augusto Benemeglio