Vuole sapere cosa ricordo di quella sera e di quella notte? Oh, dottore, io adesso ricordo tutto, momento per momento, come un film. Ed anche le parole, tutte: anche quelle non dette ma solo pensate. Ha presente un libro aperto? Ecco: io sono un libro aperto. Prima i ricordi erano scappati… Paura? Forse. O forse per troppa voglia di vivere. Ora i ricordi sono tornati. Tutti in una volta. Tornano al mattino, quei ricordi; anche la vergogna ritorna e anche gli altri, qui, nell’Istituto, me la vedono dentro, l’ascoltano, ma non scappano, non inorridiscono. Dicono sempre: sì, sì, certo, come no. Non vogliono capire ad ogni costo: non ne hanno bisogno.
Comunque quella sera mia madre gironzolava in cucina preparando la cena e aveva un’aria annoiata, un broncio che da un po’ di tempo le vedevo sempre più spesso stampato in faccia, specie quando c’era in casa mio padre. Ad un tratto disse:
– Dante ha un cuore d’oro e anche le mani ha d’oro, quell’uomo, quando tocca la roba.
Mia madre lo disse piano, con la sua vocina sottile, di ragazza, quasi parlando tra se, ma non tanto da non farlo sentire a babbo mio che, anche se era grande e grosso, a quel tempo stava male e da un anno non faticava più tutto il giorno come prima, ma rimediava solo qualche soldo come guardiano di notte in un garage. Così tirava la giornata metà a dormire e metà seduto a far niente giù al bar, aspettando sera, oppure restava in cucina a leggere il giornale che portava su, quello di ieri.
– Tuo fratello ha proprio il bernoccolo giusto per gli affari. – continuò lei più forte – Si vede che sa trattare con la gente. Quel suo banco, al mercato, tira che è un piacere.
Mio padre per un po’ fece finta di niente. Poi sbottò:
– E’ vero, Angiolina, è vero. Che lo ripeti a fare? Lo so anch’io ch’è bravo. Se è per questo, manco pare mio fratello… Dante ci ha proprio un talento naturale per le cose sue.
– Le cose sue! – sbuffò mia madre – E anche le nostre, se permetti! E guarda! – E tirò su un borsone di roba che zio Dante aveva portato dal mercato. Roba buona che si sentiva l’odore da lontano.
Era giovane, allora, mia madre. Ed era bella. Tanto bella. Portava vestiti corti e colorati e ciabattava a casa con pantofoline con un fiocco giallo e il tacco trasparente e, passando in camera da letto, si guardava avanti e dietro nello specchio dell’armadio, come se dovesse uscire da un momento all’altro. E con quelle ciabattine e quelle gonne corte, quando, sul ballatoio comune, si curvava per stendere i panni, le si vedevano le gambe tutte nude fino in fondo e io avevo vergogna a guardare, ma guardavo, e avevo anche paura che qualcuno, giù dal cortile, alzasse dritto gli occhi su di noi.
Mio padre, invece, s’affacciava di rado, e, se lo faceva, non parlava con nessuno. Qualche volta se ne stava lì, a fumare appoggiato alla ringhiera, guardava in lontananza case e ciminiere, accarezzava i gatti e tornava dentro appena vedeva qualcuno sulle porte.
Erano sere, quelle, in cui io volevo andarmene lontano. Lontano da quella casa e da quel quadro affumicato che si vedeva sempre alla finestra. Lontano dai gatti che venivano a strusciarsi alla ringhiera del ballatoio per lasciare piscio e peli. Lontano dalle donne che sorridevano strano e parlottavano tra loro dai balconi vicini. Io fingevo di non capire, ma capivo. Lo sapevo che parlavano di noi.
E pensavo a mia madre. Volevo andarmene lontano anche da lei, lasciarla alle sue cose, allo specchio, alle lunghe chiacchierate con zio Dante, alle occhiate dei vicini e degli altri dal cortile.
Qualche volta, però, immaginavo di andarmene via assieme a lei ed essere già grande e parlare sicuro, con una voce potente, proprio come quella che aveva zio Dante e che a lei piaceva tanto; e di non volere più, da mia madre, solo buffetti e carezze ma tentare di vederle quelle cose da femmina, quelle cose nascoste, di cui mi parlava sempre il mio amico Mattia dopo la scuola, anche se sapevo che non sarei riuscito a vedere niente di lei, proprio niente, perché avrei chiuso, forte forte, gli occhi.
Durava solo un momento, quel pensiero, e io lo sapevo che era un pensiero strano e proibito. Ma era anche morbido, come le zampe dei gatti. Restava lì, appeso, a dondolare, anche se io non volevo entrarci dentro, non volevo neppure toccarlo con la mente. E così mi si torceva dentro proprio come un gatto quando ti si struscia vicino e fa le fusa e sembra che non abbia le unghie per graffiare. Ma qualcosa mi diceva che quella fantasia aveva gli artigli, ben nascosti, arrotolati, proprio come quelli dei gatti. Ed anche se tutto durava solo un momento, io per mezz’ora respiravo male e dentro sentivo salire un odio feroce per qualcuno, ma non sapevo bene per chi e se quel qualcuno non fossi proprio io.
Forse proprio per questo volevo scappare: sognavo di andare in un posto lontano, un posto sconosciuto, e laggiù dimenticare mia madre e tutto e tutti, e non avere più paura dei miei pensieri né dei miei occhi e non dover più arrossire, in certi momenti, quando le mie fantasie pitturavano cose maledette.
Andare via. Scappare. Dove?
Poi mi dicevo che il babbo stava male, che non potevo lasciarlo da solo a intristire davanti al suo giornale e alla tivù, e anche se sapevo che era una bugia, ripetevo la stessa cantilena, al punto che avevo finito per crederci davvero.
Quella sera, dopo che babbo uscì per il lavoro, scesi le scale di corsa, volai sugli ultimi gradini di ogni rampa e mi ritrovai nel grande atrio del caseggiato, davanti alle altre oscure bocche di scale con i loro denti di scalini sbrecciati.
Oltre il portone mi fermai un poco e guardai in su, verso casa. Si sentiva la voce mescolata di tutti i televisori del caseggiato e si vedevano le luci colorate riflesse nelle finestre appannate. In quella che dava sulla cucina nostra si intravedeva a tratti la figura snella di mia madre dietro la finestra. Passava e ripassava in quel riquadro chiaro con in mano uno straccio, una pentola, un piatto, e, quasi senza accorgermene, stetti acquattato nell’ombra a guardare, stetti troppo, finché mi accorsi che mi stavano tornando quei pensieri da gatto.
E allora corsi via. Corsi a perdifiato come se m’inseguisse qualcuno; corsi fin sulla provinciale e sentivo il vento sulla faccia: era fresco, quel vento, ma non riusciva a spegnere la vampa di calore che mi saliva in testa.
Intanto il cielo s’era fatto scuro e qualche lampione proiettava la mia ombra sulla strada e io, camminando, giocavo a calpestarla. Non era solo un gioco, e lo sapevo, perché io odiavo davvero quell’ombra.
I camion lasciavano una scia di luci rosse e di fumo, e quelle luci si perdevano lontano e sembravano indicarmi qualcosa laggiù. Così mi misi a pensare se quella era la sera giusta per scappare, lasciando quell’ombra odiosa sulla strada.
Andare… Andare? Oppure… tornare indietro, ma a che fare? Magari a nascondermi fra le frasche del cortile… e guardare ancora mia madre alla finestra?
* * *
Da un po’ di tempo non mi piaceva più tirare ai gatti con la fionda, mi toccavo i peli sotto il naso e con Mattia, quando uscivamo da scuola, parlavamo sempre più di donne e meno di pallone. Ed anche se Mattia diceva troppo e s’inventava un mucchio di cose strane sulle donne (e dove e come, e sopra e sotto, così e così…), io facevo sempre finta di sapere tutto, ma non avevo chiaro in testa proprio niente.
Anche quella notte risentivo i discorsi di Mattia e presi apposta per una traversa perché sapevo che, più avanti, c’erano quelle che lo facevano con tutti, per soldi, come fosse un lavoro.
Le vidi da lontano: erano in due accanto al fuoco che usciva da un bidone: una era grassa, fumava stando seduta a gambe larghe sopra un paracarro e le si vedeva anche la pancia nuda sopra la gonnella; un’altra, una mora secca come un palo, stava appoggiata ad un albero, masticando qualcosa, e ogni tanto inclinava indietro la testa e sputava lontano, come un uomo.
Erano queste le donne di Mattia? Queste potevano insegnarmi tante cose? No, queste a me facevano paura: sembravano streghe con quelle fiamme davanti e quelle ombre lunghe che ballavano attorno.
Così tornai indietro, sulla provinciale, solo con i miei pensieri e la mia ombra, e da solo me li trascinai per quella strada affogandoli in quella poca nebbia e nel fumo dei camion che mi rombavano a lato.
Camminai per un’ora, un’ora e mezza, girai tutt’attorno alla borgata e anche oltre, ed era già la mezza passata ma non volevo ancora tornare: avevo bisogno di pensare e stare da solo. Avevo la chiave di casa con me e non m’importava un fico se tornavo tardi.
Qualche volta, al rientro, neppure la vedevo, mia madre. Si chiudeva a chiave in camera con il suo mal di testa e manco mi sentiva quando entravo. L’indomani chiedeva: “A che ora sei tornato ieri? Tardi, eh?” Poi aggiungeva: “Va bene uscire con gli amici, Nicuccio, è quasi estate e fuori si sta bene. Ma tieni gli occhi aperti e non prendere niente da nessuno. Niente droga, capito? Hai solo tredici anni. Quella è roba che ammazza.” – E concludeva: – “Beh, non diciamolo a babbo, ché quello, lo conosci, se la prende con me e a te ti suona…” E lo diceva sempre con un sorriso strano, un sorriso da complice che a me piaceva tanto.
Ma io da un po’ di tempo m’ero accorto che le mie uscite notturne non le dispiacevano affatto: qualche sera, mentre eravamo soli e il televisore ronzava, lei faceva: “Alla tivù non c’è niente e questo rumore mi fa impazzire. Spegni, Nicuccio, per favore! Ho un male qui… e qui…” – e si toccava la testa, avanti e dietro e strizzava gli occhi come se soffrisse anche per quella poca luce della stanza. “Io vado a letto, ma tu non stare qui da solo. Devi svagarti un po’ dopo la scuola. Chiama Matteo, magari andate al cinema, stasera.” E intanto frugava nella sua borsetta e mi dava i soldi per i due biglietti e avanzava anche qualcosa per la Coca Cola.
* * *
Quella notte, potevano essere le due, forse qualcosa meno, mi aggiravo ancora nei viali del quartiere quando, mezzo nascosta fra gli alberi, non ti vedo la macchina di zio Dante? L’avrei riconosciuta tra mille, quella macchina: aveva un pupazzetto portafortuna attaccato allo specchio, una cosa che aveva comprato in qualche viaggio. Che fortuna ci ha portato quel pupazzo!… Ed io pensai: che ci fa zio Dante, qui e a quest’ora? E perché ha posteggiato così lontano da casa quando c’è un mare di spazio nel cortile? Che si sia sentita male, la mamma? Che l’abbia chiamato di premura? E perché lui? Perché… Perché…. Perché….
E con tutti i miei “perché” salgo le scale. Salivo piano perché me lo sentivo che qualcosa era successa o stava per capitare al terzo piano. Perché io abito al terzo, dottore: importa poco, lo so, ma voglio che lei sappia tutto, anche le piccole cose, fino in fondo.
Arrivo al terzo, dicevo, e niente: m’aspettavo, che so, la porta aperta, un tramestìo dei vicini… qualcosa del genere, insomma, e invece niente: sentivo solo il mio respiro. E, tra un respiro e l’altro, il solito rimbombo dei piccoli rumori nella scala. Così in silenzio, come le altre volte, apro pian piano la porta e non la chiudo subito, per non fare rumore.
C’era Dante lì dentro: ho sentito il suo profumo. Non era la prima volta che sentivo quell’odore di menta e di tabacco ma questa notte era proprio forte, ed era vicino. C’era zio Dante lì dentro, ero sicuro: la macchina, il pupazzo e l’odore, tutti insieme, mi dicevano che zio Dante era là dentro.
Poi cominciai a sentire i gemiti. Si sentivano a stento. Erano attutiti e venivano dritti dalla camera da letto, ma io capii subito che non erano di mamma ma di zio Dante. Sempre più lesti, sempre più forti. E lui diceva qualcosa, non so cosa, non me lo chieda, dottore, non lo ricordo… non lo ricordo davvero… so solo che la sua voce raschiava l’aria come carta vetrata! Sempre più forte, sempre più forte!
Poi sentii anche la voce di mamma. Anche la sua voce era cupa, sembrava che stringesse qualcosa fra i denti e chiamava: “Dante… Dante!”, quasi lo volesse trattenere a forza e quel suo grido strozzato oscillava sempre più veloce e mi colpiva qui, proprio qui, nel centro della fronte…
E anche io, allora, cominciai a gridare, ma gridavo in silenzio… Sì, dottore, mi gridavo dentro, sa? Gridavo: “No!..no!” ad ogni colpo, stringendo i denti, tappandomi la bocca…
Mi ritrovai a correre e c’era un’erba pungente e bagnata che mi batteva le caviglie. Forse avevo lasciato la strada e stavo volando nella nebbia che s’era alzata sopra i campi. Sentivo ancora in testa i lamenti, i gemiti, e le urla che uscivano dalla camera da letto e mi sembrava di vedere tutto. Proprio tutto quello che mi aveva detto Mattia: e così e così, e sopra e sotto… e io seppi che era tutto vero. E vedevo le belle gambe di mia madre, lisce e tonde, accartocciate tra le zampe pelose di zio Dante. E guardavo quei due fare tutte le cose porche che diceva Mattia: li vidi girarsi e rigirarsi e contorcersi e rotolare in quel letto grande che ad un certo punto si mise a tremolare come fosse nell’acqua.
Sì, piangevo, dottore, ma non mi asciugavo le lacrime, no, no… Lasciavo che mi scorressero addosso e che m’inondassero la faccia e quella stanza da letto… Volevo che quel fiume che usciva da me trascinasse via lo zio Dante, che lo inghiottisse! E vedevo salire l’acqua, e il letto galleggiava come una zattera e sentivo mia madre, tutta sola in quel lettone, che mi chiamava perché voleva essere salvata o annegare insieme a me.
Come erano le gambe di zio Dante? Gliel’ho detto, dottore: erano nere, sporche, pieni di peli! Forse hanno sporcato la pelle di mia madre, e proprio questo pensai in quel momento. Pensai anche che avrei potuto lavarla io, quella pelle. Forse, se raccoglievo tutte le mie lacrime, potevo! Così mi asciugai il viso con le dita e strinsi forte i pugni per conservare il liquido. Ti lavo io, mamma – dissi all’aria e al vento – non sarai più sporca di zio Dante, mamma, io ti lavo!
* * *
Quando arrivai al garage dove lavorava mio padre sentii tre tocchi al campanile di San Vito.
“Vietato fumare”, “A passo d’uomo”, “Lasciare la chiave nel cruscotto”: le conoscevo bene quelle scritte. Eppure non riuscivo a leggerle: le lettere navigavano nel mare giallo delle tabelle e si mischiavano con i numeri, i prezzi, le strisce per terra. Mio padre non dormiva nella brandina: era nel casotto di vetro, dietro una scrivania minuscola e leggeva qualcosa.
Dapprima manco si accorse di me. Quando mi vide non mi riconobbe subito: chissà che faccia avevo in quel momento!
C’era una luce forte, bianca, là dentro. Una luce al neon che faceva male agli occhi. Ma ad un tratto tutto si spense e sentii un gran sonno. Un sonno strano. E mi sentivo bene e scivolavo in un buio tiepido e morbido e c’era un gran silenzio attorno.
Quando i neon si accesero di nuovo sembravano ancora più potenti, più feroci: un rosso incandescente riusciva persino a penetrare se tenevo gli occhi chiusi. A tratti intravidi il nero di una massa enorme che si agitava sopra di me, che mi chiamava da lontano. Poi quella voce si fece più vicina ed era quella di mio padre: ora sentivo anche la sua mano dietro la nuca che mi sollevava la testa dal pavimento e mi resi conto con meraviglia che lì dentro pioveva forte. Avevo la testa e la faccia bagnata e sentivo freddo nelle ossa e il cemento era ruvido e volevo rispondere, ma non riuscivo.
– Svegliati Nico, svegliati, cos’hai? Cosa ti senti? Cosa è successo a casa? – Mio padre aveva una bottiglia di minerale in mano e con quella mi spruzzava acqua in faccia. Allora mi ricordai dell’altra acqua che conservavo nei pugni chiusi.
– La lavo io la mamma, papà. Non sarà più sporca. Io la lavo.
– Che dici, cristo, che dici? Svegliati! Chi devi lavare? Stai male? E che ci fai fuori a quest’ora, Nico? – la sua voce rimbombava troppo forte fra le strisce gialle e nere delle pareti.
– La lavo io con queste – gridai mentre aprivo e chiudevo le mani. Ma mi accorsi che le mie mani non erano più bagnate.
– Perché la devi lavare? Cosa dici? Hai sbattuto la testa?
– Le gambe di zio Dante sono nere, papà, sono tutte piene di peli e sono sporche. Quelle di mamma prima erano pulite, erano belle…ora sono sporche, è stato lui che li ha macchiate…
– Che c’entra zio Dante? Cazzo! E parla! Cos’è ‘sta storia? Chi è che hai visto? Zio Dante? Che ci fa a casa nostra, a quest’ora, lo zio Dante? Dimmi: è con la mamma? – ma non si aspettava risposte: mentre parlava mi sollevò di peso e mi fece sedere nel casotto a vetri. Intanto frugava in un cassetto e prese qualcosa. Io la vidi quella cosa: era nera, era una pistola più grossa di quella che m’aveva comprato per Natale. Ed era avvolta in uno straccio tutto macchiato e faceva una gran puzza d’olio. Quella cosa nera gli ballava fra le mani. Tremava.
Quando riuscì a metterla in tasca mi disse:
– Tu stai qui. E non ti muovere, capito? – E scappò via dal casotto e mentre si infilava in una macchina parcheggiata gli si vedeva un gonfiore strano sulla coscia: doveva pesare tanto quella pistola, non era come quella con cui giocavo io. Quella era leggera, era di plastica. E poi, quella mia, ora è tutta rotta: non ha manco più le cartucce di cartone. Ma io ce l’ho in mente, quella vera, quella che il babbo mio usava sul lavoro: mi è rimasta talmente impressa nella mente che l’ho pure disegnata, la vede? tale e quale, nera, lucida, pesante.
Così aspettai. Ed ero calmo, adesso: stavo seduto in quel casotto di vetro con tutte le luci attorno e quelle strisce gialle e nere erano ferme, immobili, come in attesa di qualcosa. Qualcosa da grandi.
Dovevo fermare mio padre? Corrergli dietro? Un pensiero veloce mi attraversò la testa e si perse lontano. Avevo anche il telefono vicino e accanto una fila di numeri scritti in un cartone. Polizia. Carabinieri. Pompieri. Croce Rossa. Ambulanza. Erano numeri piccoli, facili da fare.
Ma stetti fermo. Non feci nulla. Mi guardai le mani asciutte: cosa potevo fare io con quelle mani? Avrebbe fatto tutto babbo mio, per me. Lui era grande. Ed anche se lui l’aveva persa da tempo la sua Angiolina, a me l’avrebbe ridata.
Perché io lo sapevo che quella pistola avrebbe sparato. Avrebbe fatto un botto tremendo in quella stanza e già vedevo zio Dante contorcersi fra le lenzuola e farle diventare rosse, come si vede al cinema. E vedevo mia madre scivolare dal letto nuda e libera, e cercarmi. Magari sarebbe corsa fino in garage per vedere cosa m’ero fatto cadendo svenuto.
Sarebbe venuta da me, m’avrebbe tastato la testa e m’avrebbe detto: – Nicuccio, tesorino mio, non è niente, sei svenuto ma non ti sei fatto niente. E anche io non mi sono fatta niente: adesso sto bene. Zio Dante è morto ma lui era sporco, nero, pieno di peli, non mi piaceva. Zio Dante mi toccava ma io non volevo, mi faceva schifo. Anche le mani aveva sporche: ha fatto bene papà ad ammazzarlo come un cane. Adesso devo cambiare tutte le lenzuola, ma ne valeva la pena.
E sapevo che poi mi avrebbe sussurrato, come quand’ero bambino: – Di chi sono io? Dillo, dillo! Del mio Nicuccio, sono! Del mio tesorino… E di chi è Nicuccio? Dillo, dillo…
* * *
Stetti tanto in quel garage e dopo un po’ pensai che forse mi ero sbagliato. No, non c’era zio Dante a casa mia! Chissà cos’era quel profumo di menta e di tabacco… Chissà cos’erano tutti quei lamenti… E più passava il tempo più volevo che papà mio tornasse presto perché mi ero stufato di restare ancora in quel posto puzzolente.
Intanto m’ero messo a girare fra le macchine ed entravo nelle più grosse e m’immaginavo di correre per strade lunghe lunghe e che c’era mamma mia nel sedile a lato che mi diceva: Come sei bravo Nicuccio, sai guidare meglio di papà.
Ad ogni curva cambiavo le marce ma non sapevo come accendere il motore, così facevo “brrrrrr….brrrrrr” con la bocca e giravo lo sterzo, e anche se era duro, lo giravo lo stesso forzando con tutte e due le mani e così si sentivano sfregare le gomme per terra, proprio come se corressi per davvero.
Mi trovarono così, quelli che vennero a prendermi. Era già chiaro e i neon sembravano fare una luce smorta là dentro. Entrarono in tre. Una era una ragazza in divisa. Una poliziotta. Ma non aveva la voce da poliziotta. Parlava piano e sbatteva le ciglia; a tratti guardava gli altri come per chiedere cosa dire, e poi mi accarezzava i capelli. Proprio non sembrava una poliziotta.
Quando mi misero dentro una bella macchina con scritto “Polizia” posteggiata in cima alla rampa, lei si sedette con me nel sedile di dietro e mi continuò a carezzare sulla testa, mentre parlava, allontanandomi i capelli dagli occhi.
– Ti portiamo per un po’ in un posto bello, con tanti ragazzi. E c’è un giardino.
– Perché non mi portate a casa?
– Per adesso non si può. Ma ti troverai bene. Proprio come a casa.
– E c’è mia madre in quel posto col giardino?
Invece di rispondermi lei si mise a parlare con quelli davanti. Diceva un mucchio di cose che non capivo. Pareva che lo facesse apposta a parlare difficile. Apposta per non rispondermi. Sentivo la radio gracchiare e in mezzo alle scariche e diceva tanti nomi di vie e numeri. Gracchiò anche l’indirizzo di casa mia. Uno disse al microfono: – Sì, il ragazzino è qui in machina, con noi.
* * *
Seppi tutto un paio di giorni dopo. Smaniavo, gridavo, volevo sapere tutto. E tutto mi dissero, ma a poco a poco. Anche di mia madre, mi dissero. Arriverà presto, sta un po’ male, è ferita, è grave… è morta.
Fu allora che qualcosa mi si frantumò dentro, come una bottiglia quando cade per terra. E tutti i ricordi scivolarono via e io non sapevo più neppure il mio nome, non conoscevo più quello di mamma mia nè quello di mio padre. Non sapevo chi fosse Dante. Sapevo solo che all’una si mangia, alle sette si mangia, alle nove si dorme, cose così; o forse non sapevo neppure quelle perché andavo appresso agli altri e facevo quello che facevano loro. Riuscivo solo a ricordare le cose per un’ora o due. Esistevo e basta.
Lei dice che è durato più di un anno, dottore? Non lo so, ma ci credo.
Poi i ricordi sono tornati. Da un po’ di tempo io ricordo tutto: quella notte gira come al cinema e io, prima di ammazzarmi, la rivedo tutta.
Rivedo quel letto grande, pieno di sangue e vedo mia madre galleggiare nuda sopra quel rosso e girare, girare assieme a zio Dante. Neppure si toccano: come due pezzi di legno in uno stagno. Sembra che guardino tutti e due il soffitto ma io lo so che non vedono più niente.
Qui dicono che sono mezzo matto perché ogni tanto m’ammazzo con questa pistola di carta. Ma è con quella pistola che io ho ammazzato mia madre. Perché sono stato io a metterla nelle mani di mio padre: quella era solo più pesante ma questa è uguale. L’ho disegnata bene. Guardi, guardi, dottore, è nera, lucida, e anche questa puzza d’olio, senta, senta, e non sbaglia un colpo, sa? Quando di sera me la metto in bocca e faccio “bumm!” il cervello esplode e i ricordi colano piano piano lungo il muro, lontano da me.
Per qualche ora, almeno, posso dormire. Poi quei ricordi tornano. Tornano sempre.
Per questo io devo ammazzarmi di nuovo.
Enzo Maria Lombardo
Immsgini forti, anche sudice nelle quali Enzo passo a passo ci fa immergere senza farci imbrattare. Per restarne incontaminato bisogna morire, ammazzarsi ogni giorno e così reggere il confronto con una tragica verità.