La mia prima Lia, quando nacque, aveva, più o meno, sedici anni.
Ed io l’aspettavo, ogni sera, in cima a un foglio bianco e, nell’attesa, c’era un’ansia sempre nuova, e, dal primo rigo un po’ incerto, la seguivo, con frasi sempre più lunghe e articolate, in strade dritte e pulite, in ville e prati curati, finché mi insinuavo furtivo fra le siepi di un giardino e – seduto su una panchina di marmo, seminascosto dalla chioma di un larice – tentavo di imprimermi nel cervello forme, impressioni, movimenti, colori, luci, ombre. Tutto di lei. E tutto finiva in quel foglio e ogni cosa si trasfigurava, s’ingentiliva con la scelta accurata dei fonemi, con tratti di acquarello, con il bianconero delle ombre lunari…
La vedevo, appena alzata, circondata da sete bianche in cui i suoi capelli fluivano come ruscelli dorati quando, convinta d’esser sola, la piccola bocca le si arrotondava, non protetta, in un lungo sbadiglio, mentre braccia bianchissime si tendevano in alto assieme ai piccoli seni. Poi la inguainavo in abiti attillati, oppure le disegnavo addosso vesti vaporose con disegni cangianti e le donavo le prime scarpe con il tacco, su cui riusciva subito a camminare leggera come se le avesse sempre portate.
E rileggendo le ultime pagine di una nuova storia, aggiustavo qualcosina qua, un filino là; non tanto, però, chè bisogno non c’era. Se limavo il racconto era per lei. Volevo starle ancora un po’ vicino. Sentirla mia, totalmente mia.
E così evitavo di concludere le storie, rettificavo un fronzolo, una piega, una sciocchezza, che so… giusto l’orlo di una camicetta, il tenue rossore d’una guancia o la soffusa trasparenza d’un ginocchio di porcellana quando, sfiorando appena il terreno, danzava la sua primavera mostrando i segni della sua recente pubertà, quasi impudici nella loro ingenua evidenza.
Però, qualche sera, cercando l’incipit per una nuova storia, restavo a lungo incerto davanti al foglio bianco mentre nella mente le frasi scorrevano lente e banali, senza alcun mordente…
Anche Lia mi appariva imperfetta. I colori sbiaditi, le movenze forzate, il biondo dei suoi capelli troppo biondo e l’azzurro degli occhi troppo azzurro…
Cosa mancava ancora? Cosa potevo dare a una pura immagine per farla diventare un vero personaggio?
In quei momenti, esausto, cessavo anche di tentare di scrivere qualcosa, chiudevo la stilografica, appallottolavo il foglio immacolato e restavo così, nella penombra, con gli occhi socchiusi, quasi volessi attutire i sensi, confonderli nell’oscurità, perderli nel buio…
* * *
Una sera mentre le ombre si addensavano sempre più nello studiolo, in cima al foglio bianco spuntò una tizia che non somigliava affatto alla mia Lia.
– “Tu non sei Lia!” – dissi con forza ed ero un po’ spaventato da quell’intrusione – Hai sbagliato autore! Vedi questo foglio, carina? Io aspetto una persona, in questo foglio bianco, l’aspetto proprio adesso e tu non puoi entrarci!”
Il suo silenzio era irritante e io la fissai sconcertato. Aveva una figurina minuta questa tizia, capelli neri a caschetto e occhi che sembravano punte di spilli in un mare di rimmel e poteva anche essere graziosa, a modo suo, con quel viso impiastricciato e impertinente ma guastavano tutto quei jeans scoloriti, la maglietta stinta rossastra e le scarpe da tennis strappate in più punti.
– “Non viene” – disse sogghignando e gli occhi le luccicarono come piccoli tizzoni ardenti che quasi bucavano la carta.
– “Cosa vuoi dire? Chi è che non viene?”
– “E’ morta, quella” – continuò con una voce strascicata e insolente.- “Tu sai bene che è morta. E’ morta stracciata, accartocciata, finita nella cartaccia fra il pattume dei tuoi scritti mielosi. Non ricordi?”
– “Piccola arpia senza nome” – gridai con ferocia – “la mia Lia non è morta! Non è morta per niente! Non può morire un sogno, maledetta, non può essere stracciata una visione!”
Lei non si scompose e con un certo sussiego posticcio si mise a misurare lo studiolo a piccoli passi ancheggiando con intenzione.
– “Sì, morta…” – disse in un sussurro appena udibile. “Morta e sepolta!” – disse più forte e si sedette davanti al tavolo inclinando quel piccolo viso truccato male, guardandomi di sottecchi come aspettando qualcosa.
Oddio, pensai con terrore, può anche essere che limando e rilimando, stracciando le bozze, ritoccando qua e là qualcosa, posso aver distorto il personaggio… specialmente nelle ultime storie, negli ultimi paragrafi… Ma morta, no! Io non potevo uccidere la Lia!
– “Come potevo” – – urlai ai muri e agli scaffali – “scambiare il suo viso e il suo portamento per una tizia senza nome? E per chi, poi? L’avrei forse uccisa per te? Per una tizia impertinente che neppure conosco?”
Lei si sporse sulla scrivania, vi si adagiò, quasi, con il busto e il ventre, spingendosi verso di me, allargando le labbra contornate da un segno rosso un po’ sbavato. Poi mi alitò sul viso un: “Sì!” così pieno e potente che mi parve il suono stridulo d’una stilettata. Ed allora capii di aver perso.
– “Chi sei?” – balbettai – “Chi sei tu?”
– “Guardami bene” – disse lei con impeto – Io sono Lia! Sì, proprio io!” – disse risiedendosi con aria vittoriosa – “E sei tu” – continuò – “Sei tu che mi hai fatto nascere a sedici anni facendomi sbucar fuori da una tua insofferenza, lercia e stracciata come piace a te! Ed ora mi rifiuti?”
– “No!, no!, no!” – cantilenai io senza forza e chiusi gli occhi ma il suo viso mi era sempre più vicino. Li riaprii, gli occhi, ed era ancora là, nitida e trasparente, stagliata tra i volumi e i soprammobili dello studio, riflessa dal foglio bianco in cui la penna ricominciava a scrivere mentre lei continuava a parlare con voce meno accesa, più dolce, una voce che la mia Montblanc, strisciando sulla carta, si sforzava di rendere viva e credibile.
– “Dillo” – continuò con voce più forte – “dillo che non ne potevi più, povero santo, di immagini poetiche e fasulle! Dillo che le sete, i veli e quei colori smorti e da fantasma ti avevano procurato il voltastomaco! E così ti sei deciso, finalmente! Mi hai costruito quasi senza accorgertene, in sordina… e mentre quella tizia smorfiosa moriva e quei cosi che le avevi messo addosso, belli e bianchi, diventavano cartaccia assieme al suo pianoforte e al larice piangente, io ti crescevo dentro e tu smaniavi, la tua stilografica fremeva, la risma di carta era lì, ad aspettarmi… E così mi facesti correre e giocare con i cani affamati in una prateria piena di erbacce, di copertoni bucati e batterie abbandonate finché un giorno… oh, un giorno particolare, un giorno strano, mi hai fatto credere di essere donna!”
A quel punto quel torrente di parole si fermò e un silenzio d’attesa scese come un sipario tra le parole. Lei respirava a bocca aperta, con affanno, e una parte di me voleva fermarmi finché ero in tempo, ma non potevo! L’inchiostro fluiva dalla stilografica in volute sottili, come un filo di sangue nero che non potevo interrompere senza ucciderla.
Così mi costrinsi a seguire la penna e la mia nuova Lia continuò a parlare, a parlare, a parlare… e il pennino dorato volava veloce sul foglio e faceva zig zig scratc, zig zig scratc e, per far presto, le “t” restavano senza barra e le “i” senza puntino.
Dovevo seguirla in fretta, questa tizia, anche se non capivo bene tutte le sue parole e il senso a volte mi sfuggiva. Pensai che dovevo proprio limarlo quel pezzo, magari ripassarlo e correggerlo. Magari strappare tutto!
– “Vorresti strozzare anche me?” – disse lei leggendo il mio pensiero – “Vuoi accartocciarmi nei fogli appena abbozzati? Oppure mandarmi al rogo bruciandomi nel portacenere? No che non puoi! Perché tu muori dal desiderio di rivedere quella tiepida domenica di sole in cui io fui donna! Donna? Che dico? – continuò lei puntando lo sguardo sulle carte, e la sua voce mi sembrò più acuta e che tremasse un poco – Femmina, mi vedranno i tuoi occhi in quei fogli che tenterai di nascondere in fondo al cassetto! O forse neppure questo: sarò una cosa che si può fare a tocchi, a fette, una cosa senz’anima da vendere e comprare! Così mi vedranno quelli che mi metterai attorno, pronti a palparmi il sedere come un melone, giusto per sapere se è duro e se è maturo, per poi staccarne un pezzo, il più succoso, e mangiarne la polpa sputando i semi.”
Era assurdo, lo so, ma i suoi occhi mi parvero d’un tratto più lucidi come se quell’immagine fosse anche capace di piangere e subito dopo vidi davvero due lacrime scivolare in quel viso da bambina, seguendo due rughette che le si erano formate adesso, agli angoli della bocca.
– “Perchè proprio Lia?” – dissi in un sussurro strozzato – “Perchè lo stesso nome?”
Lei mi guardò fisso, tirò sù con il naso e si passò veloce due dita nelle guance inumidite, poi quei piccoli carboni che erano i suoi occhi luccicarono per un attimo diversi: come se si sprigionasse da essi un guizzo feroce di fiamma.
– “Perchè tu vuoi che io sia la tua Lia!” – gridò con voce isterica – “Una Lia che puoi guardare e spogliare. Senza rimorsi, senza pietà, senza pena. Una come me, vedi? una dai vestiti così lerci che è meglio che se li levi subito di dosso!”
E così fece, mio dio! Fece proprio così! Si allontanò dalla scrivania e si tolse la maglietta e i jeans e restò nuda, con solo un vecchio paio di scarpe da tennis ai piedi.
La lampada illuminò il chiarore della sua pelle e i suoi piccoli seni. Anche lei aveva un collo da cigno, pensai, lungo ed esile come un Modigliani e i suoi capelli neri, a caschetto riflettevano punti di luce con barbagli di fuoco ed erano ombre più scure nell’ombra che avvolgeva la stanza.
– “Scrivi in fretta” – mi disse mentre, nuda, girava attorno al tavolo con il suo piccolo corpo sinuoso. Ed i suoi passi non facevano rumore con quelle scarpe da tennis bucate e io sapevo che i miei occhi seguivano quel corpo, ne seguivano i contorni, i chiarori e le ombre anche se sembravano puntati su un foglio scritto a metà.
I tratti di penna divennero sempre più nervosi, le lettere sempre più arcuate, le frasi solo accennate e interrotte da piccoli schizzi d’inchiostro, spesso senza punteggiature o a capo, senza il minimo senso del ritmo, con costruzioni strane, cantilenanti, tentando di imitare la sua parlata.
Erano immagini e pensieri fasulli che non potevano appartenermi, pensai, parole che, rileggendole, avrei forse ripudiato e maledetto, ma che adesso sembravano emergere da sole, dalla mia stilografica.
– “No!” – mi sentii gridare – “Non ti distruggerò, Lia, non posso farlo…” e la penna continuò a scricchiolare lenta e sforzata sul foglio tracciando lettere tremolanti e a volte la punta s’inceppava, bucando la carta.
Poi, pian piano, il pennino dorato riprese la sua corsa mentre Lia mi guardava felice al di là della scrivania, ammiccando con i suoi occhi neri, continuando a dettare veloce con una vocina sottile che non mi parve più strascicata e insolente.
Ed io misi giù tutto quello che diceva. Lo misi giù tale e quale, sera dopo sera, finché, un giorno, lei disse “basta” e non perché la sua storia fosse finita, ma perché non era una storia da finire.
– “Il resto” – mi disse – “lo potrai conoscere da solo, quando incrocerai qualcuna come me….”
Enzo Maria Lombardo
Tratto dal romanzo “Lia di Porta Portese”.
Puoi scaricare gratuitamente il file dell’intero romanzo in formato: PDF, e-pub e kindle nella biblioteca del sito Copylefteratura al seguente link:
http://www.copylefteratura.org/?p=483
Grande Lia!!!!!! bello!!
Grazie Frank.
Il travaglio prima di partorire. Il reale “onirico” precipita a valle e come una valanga travolge. Lia è vera o è un fantasma? Forse ambedue e ci fai partecipi delle sue e delle tue sensazioni con un tocco superbo.