Non ti si vedeva da un pezzo, Michele, e dicevano che stavi male, così mi decisi. Fu un sabato mattina quando per la prima volta salii le scale di casa tua. La ragazza che aprì il portoncino portava in vita un grembiule attorcigliato e le pattine ai piedi. Sorrideva stupidamente, con gli occhi sgranati in un viso piccolo e smunto. In testa un caschetto di capelli neri. Insignificante donna, pensai.
Ti affacciasti appena nell’ingresso, ricordo, e avevi in faccia un sorriso tirato, uno di quei sorrisi stampati che sembrano nascondere la tristezza o il dolore che c’è sotto, come una maschera greca.
Forse sta male davvero, pensai, mentre allontanandoti dicevi: “Entra, entra”e mentre lo dicevi sei di nuovo scomparso nel corridoio.
Una porta sbatté e dopo un po’ sentii la tua voce stridula che superava a stento il rumore dello sciacquone. Qualche parola annegò risucchiata dai gorghi ma si salvarono due nomi: “Marta” e il mio. Ci ha presentato, dissi, poteva andare peggio.
Non si preoccupi, disse Marta, è nel suo stile. Poi aggiunse: enterocolite. Stampò la parola a lettere chiare, come una condanna. Un’enterocolite coi fiocchi – aggiunse – Sta più di là che di qua.
Forse strabuzzai gli occhi, incredulo e spaventato. Perché ti voglio bene Michele, lo sai. Allora lei si mise a ridere e ridere, indicando con un dito sottile la porta del cesso dietro cui ti eri rintanato. Puntava quel dito sottile ripetutamente in direzione della porta e rideva. Rideva male. Ho capito, dissi, ho capito, e lo dissi tirando a forza le labbra, sperando che uscisse una specie di sorriso divertito. Solo per farle smettere quella risata isterica.
E’ cretina, proprio cretina, pensai. Non mi è simpatica questa Marta, ecco. Non è fine. Non è bella. Forse carina ma strana. Una tipa così.
Restammo a odiarci in silenzio, Marta ed io. Ci odiavamo in piedi e nascondevamo l’odio in una specie di disagio imbarazzato.
Ci odiavamo in piedi perchè nell’anticamera non c’erano sedie, divani, poltrone o sgabelli a portata d’occhio: solo una panca di finto noce con intarsi di gesso dipinto e qua e là scrostato, di stile imprecisato.
In mancanza d’altro utilizzai la panca con gli intarsi di finto legno e intanto mi guardavo le mani. Lunghi secondi d’assorta contemplazione di falangi e unghie. Stavo diventando nervoso.
Mi sembrò di vedere un barlume di compassione negli occhi di Marta mentre esibì un doppio calcio alle pattine e si riassettò i capelli. – Vuole accomodarsi? disse, e lo disse con il massimo della grazia a sua disposizione, che era poca. Sono comodo, risposi. Dicevo nel salotto, precisò. C’è un salotto? chiesi. Certo che c’è. Venga. E’ di là.
Di là, oltre ad una panca identica a quella dell’ingresso, c’erano anche delle sedie. Una serie di cuscini sulla panca e sulle sedie e un tavolinetto in mezzo.
In fondo, quasi nascosto nell’ombra, stava un pianoforte verticale, di un nero lugubre e, vicino, un leggio di legno, anch’esso nero, con uno spartito musicale aperto. Alcuni quadri stavano per terra, appoggiati al muro. Montagne di libri e spartiti erano poggiati a caso un po’ ovunque, il tutto confuso da un’oscurità opprimente. Ogni cosa era impastata in quel nero.
Mancavano due ceri, pensai, grossi e guarniti di ghirlande, magari accesi. Mancavano, pensai. Poi scivolai nel pratico e dissi che sarebbe stato meglio tirare le tende. La Marta scrollò il capo: Non vuole, disse, suona al buio.
Suona al buio, ripetei come un ebete, ma qui s’inciampa.
Marta tirò un po’ le tende, ma solo un poco, e una lama di luce illuminò la stanza. Era meglio al buio, pensai. Lo squallore di quelle pareti nude, di quei quadri e quei libri accatastati mi dava un senso di freddo al cuore. Michele trasloca? , pensai ma non lo dissi. C’era un non so ché di voluto in quel disordine. Un’impronta che voleva essere personale. La tua impronta, Michele.
Marta dopo un po’ si eclissò e al suo posto, sull’uscio, sei apparso tu con il tuo solito sorriso stampato. Mi dicesti: L’hai vista? L’ho vista, risposi. Ti sei fatto la serva o è la donna ad ore? No, sospirasti, stiamo insieme da un po’. Bella ragazza, mentii. Tu sorridesti scotendo il capo: non era uno di quei sorrisi da maschera greca ma un bel sorriso sornione di quelli che ti cambiano il viso. Poi ti sei avvicinato e a voce bassa mi alitasti in un orecchio: No, non è bella, lo so, ma quando suona diventa un angelo e una strega, insieme. O una sirena. Devi sentirla.
Ti si leggeva una luce nuova negli occhi e anche se parli poco, Michele, quella volta per Marta hai forzato tutto il tuo vocabolario mentre io ti ascoltavo incredulo e riandavo con la mente a quella figurina insignificante che mi era rimasta impressa nella retina. Quella? dicevo tra me, un angelo, una sirena, una strega? Proprio quella?
Ti sentivo l’alito, Michele: eri pulito. Enterocolite, pensai, non potevi aver bevuto.
* * *
Marta aveva ancora il grembiule arrotolato, girato sulle natiche, quando, più tardi, prese il violino da un astuccio poggiato contro il muro e se lo strinse al petto, insieme all’archetto, con un unico gesto, forte e affettuoso. La sentii suonare immersa nella semi-oscurità di quella stanza con te che l’accompagnavi al piano in sordina.
Dopo un po’ tu non esistevi più, Michele. C’era solo lei e quella musica che mi entrava dentro, con una sensualità che non conoscevo, attorcigliandosi alle viscere e ai nervi.
Io credevo di conoscere quelle note ma non era vero. Si, conoscevo l’autore e il pezzo, ma la musica vera, quel distillato di emozioni e di sogni che nessuno può scrivere, la creava quella donna. Usciva d’incanto dal suo violino, girava e rigirava allegra trillando tra specchi e ori o si alzava su ali di infinita dolcezza o s’immergeva cupa in baratri di tristezza; giocava con l’acqua, s’incantava a guardare le stelle, piombava sulla terra a solleticare muscoli e nervi.
Ora la stanza non sembrava più squallida e nuda; e lei era bella, Michele, bella e perversa.
Tu la guardavi mentre suonavi e dal tuo pianoforte uscivano timidi accordi al limite dell’udibile. Sfioravi i tasti sempre più piano finché sollevasti le mani dalla tastiera e per un po’ sei rimasto solo ad ascoltare, inebetito. Poi, senza far rumore, sei andato via dalla stanza.
Se tiri lo sciacquone t’ammazzo, Michele, pensai. Ma non venne alcun rumore.
Così Marta continuò a suonare da sola, con gli occhi chiusi, fusa con lo strumento, ondeggiando in un modo osceno, deliziosamente osceno, accompagnando l’archetto in una danza d’amore.
Tu eri semplicemente scomparso nell’oscurità, forse rincantucciato in un angolo della casa, imbarazzato e confuso, forse anche geloso dell’orgasmo visibile di Marta da cui erano esclusi uomini e cose.
* * *
Sono passati mesi, Michele, e Marta non sta più con te. E’ volata via con il suo violino, accompagnata da un giovane maestro del Conservatorio.
Quando bevi dici che l’hai cacciata tu, stufo del suo tradimento quotidiano. Dopo quattro bicchieri diventi malinconico e paterno: suonano bene insieme, dici, e io non ero all’altezza.
Ancora un bicchiere colmo e, da malinconico e paterno, diventi paonazzo di rabbia e gridi in falsetto confidenze irripetibili.
Come quella volta che Mario e io ti sentimmo parlare del complicato “coitus musicalis” a cui ti costringeva Marta e del fatto che non ti garbava fare da terzo incomodo fra lei e il suo violino.
Io ho sentito, una volta, il maestrino del Conservatorio e la Marta, suonare nell’Oratorio di San Giuseppe. In realtà non suonavano: facevano l’amore con i loro violini tra i frati, le suore e quel poco di pubblico pagante.
Alla fine molti applaudirono in piedi. Chiedevano il bis. Ma i frati sembravano frastornati e s’interrogavano tra loro, sussurrando qualcosa al vicino. Le suore, invece, stavano ritte e impettite: troppo rigide. Come se lottassero, nell’intimo, per ricacciare qualcosa che voleva insinuarsi a forza dentro di loro.
Qualcuno dei paganti, nascosto nell’ultima fila di poltrone, ansimava, con gli occhi bassi. Sembrava che volesse nascondere qualcosa nel cappotto ripiegato.
(Dalla raccolta: “Caro Michele…)
Enzo Maria Lombardo