A cura di Gordiano Lupi
La bella vita è il primo film di Paolo Virzì, quello che dà il via alla sua epopea livornese partendo dalla provincia più depressa: Piombino. Virzì racconta il dramma di una cittadina industriale che nel 1992 vive il declino inesorabile del mercato dell’acciaio e subisce un regresso economico di portata epocale. Piombino è una città simbolo del lavoro operaio, vive da sempre con il motto “pane e fumo”, un luogo dove i genitori educano i figli al rispetto per le ciminiere. Fino a quando da quelle bocche voraci uscirà fumo tutto andrà bene. Il 1992 è l’anno degli scioperi a oltranza, dei blocchi ferroviari, della Cassa Integrazione Guadagni a zero ore, delle lettere di licenziamento. L’anno della crisi. Virzì descrive il dramma di una città, di un microcosmo di provincia, senza demagogia, con semplicità. Fonde ,dosando sapientemente gli ingredienti della commedia, il dramma privato di una famiglia che si sfalda con il dramma pubblico di una città alla deriva. La bella vita è commedia all’italiana vecchio stile, tra momenti di commozione e parti leggere, senza esagerare né su un versante né sull’altro. Un lavoro equilibrato che fa pensare, sorridere e persino versare qualche lacrima.
La storia è raccontata in prima persona dalla voce narrante di Bruno, operaio metalmeccanico di Piombino, stratagemma che provoca nello spettatore un notevole coinvolgimento. Si parte da un flashback sul matrimonio di Bruno e Mirella con i compagni di lavoro che appena finito il turno si precipitano in Comune per le nozze. Bella la scena iniziale con una Fiat Ritmo scassata che corre dentro lo stabilimento e si fa largo tra buche e pozze fangose. Come è notevole la scena degli operai che scappano via al suono della sirena per farsi belli e cambiarsi d’abito dentro la macchina.
“Ma con la Ritmo, via…”>
“Solita figura da morti di fame!”
Le battute in livornese sono eccezionali e strappano il sorriso.
Bruno spiega che conobbe Mirella all’Elba, si sposarono nel 1989, dopo sei anni di fidanzamento, quando l’Italia era la quinta potenza industriale del mondo e gli operai venivano trattati come signori. Il flashback serve a presentarci i due ottimi protagonisti: Claudio Bigagli, un operaio metalmeccanico credibile, ben calato nella parte, e Sabrina Ferilli che dà vita a un complesso personaggio di moglie tormentata. Ricordano Accardo e Acerbo nel fondamentale My nime is Virzì (Le Mani, 2010) che Sabrina Ferilli è stata una precisa scelta del regista, visto che la produzione avrebbe preferito Nancy Brilli. Virzì aveva visto la Ferilli in Americano rosso di Alessandro D’Alatri e in Diario di un vizio di Marco Ferreri e ne era rimasto entusiasta. Il produttore accetta di ingaggiare l’attrice romana, ma pretende che vengano inserite un buon numero di sequenze erotiche.
Il racconto di Bruno ci porta al 1992, anno che segna l’inizio della crisi siderurgica e una stagione di lotte operaie che non cambieranno la situazione. Virzì descrive le assemblee, le riunioni, gli scioperi, accenna ai blocchi ferroviari alla stazione di Campiglia Marittima, mostra le differenze tra chi voleva fermare la produzione e chi voleva andare avanti a ogni costo. Il regista mette in evidenza i sogni degli operai che tentano di mettersi in proprio, che negoziano la buona uscita, persino il licenziamento. Si astiene da giudizi – non è compito di un buon narratore – ma si capisce che sta dalla parte di chi avrebbe voluto lottare sino in fondo per la difesa del posto di lavoro.
Tra chi sogna di mettersi in proprio c’è pure Bruno Nardelli che vorrebbe aprire un’attività legata alla siderurgia insieme ai due amici Batoni e Manzani Un sogno che resterà tale. Non è più il tempo per sognare una ripresa dell’industria dell’acciaio. Fare in proprio un lavoro simile è pura follia.
Virzì gira ottime panoramiche del centro storico di Piombino, ritaglia stupende fotografie di Piazza Bovio che si affaccia sull’isola d’Elba e sul Canale, ma soprattutto insiste sul lato operaio della città. Le acciaierie la fanno da padrone, inquadrate a più riprese per dividere i le diverse sequenze. I quartieri dove Virzì ambienta la storia sono i più popolari (Cotone, Gagno, Tolla Alta), molte scene si svolgono al Porto e dentro la stessa acciaieria. Il regista vuol fare un’epopea della classe operaia, descriverne la fine, il canto del cigno. Bruno e Mirella abitano in una casa popolare, non hanno figli, lui soffre di una cardiopatia congenita, adesso deve fare i conti con la crisi economica, lei invece fa la cassiera in un supermercato.
Torna la voce narrante di Bruno. Apprendiamo che Mirella è andata a vivere con Gerry e fa pure lei “la bella vita” nel villino di Salivoli con il giornalista. Bruno riprende con gli amici il progetto di mettersi in proprio e insieme comprano un terreno vicino al mare per aprire il capannone. Per ottenere un prestito in banca Bruno convince il padre a firmare una fideiussione con il suo appartamento come garanzia di solvibilità. Una scena commovente vede Bruno a confronto con il padre: “Il mondo là fuori sta cambiando e te c’hai sonno” dice Bruno. “Essere babbo di un industriale mi fa schifo”, risponde il babbo e subito dopo rincara: “Non vedo l’ora di morire per non sentirlo più questo puzzo”. La seconda affermazione riguarda l’odore di fabbrica che proviene dalla finestra, fa male sentirla uscire dalla bocca di una persona che ha vissuto con il fumo davanti agli occhi, assaporando pane e odore di stabilimento. In ogni caso il progetto è bloccato dalla banca per insufficienti garanzie e il direttore dopo una cena a base di pesce congeda gli aspiranti industriali. A cena vediamo un patetico incontro tra Bruno e Mirella: lei è a tavola con Gerry e Bruno molla tutto per andare a salutarla. Quando i tre amici lasciano il ristorante, un vibrante litigio provoca un malore al cuore malandato di Bruno che cade a terra e si ritrova in un letto d’ospedale. Tutti gli amici si recano al capezzale, persino la sindacalista Rossella che è sempre innamorata di lui. Intanto tra Mirella e Gerry le cose non vanno più così bene, ci sono spesso discussioni, anche lui risente della crisi cittadina e la sua Canale 3 non trova sponsor pubblicitari. Mirella decide di far visita a Bruno, quando lui la rivede la perdona e decidono di tornare insieme. La figura di Rossella è molto toccante, una donna sempre presente per amore, ma pronta a cedere il posto ancora una volta alla moglie che ritorna. Virzì è molto bravo a stemperare la tensione inserendo una battuta indovinata di un caratterista. “Il Tirreno me lo compra lei, domani?”. Il vicino di letto ha capito che l’altra donna non tornerà più. Gerry torna con la vecchia amante Marisa e apre un negozio di tabacchi dalle parti di Parma. Ma il lieto fine non è scontato. Il matrimonio di Mirella e Bruno continua a traballare, tra loro non c’è più amore, ma solo freddezza e un muro che li separa. Si fa in tempo a vedere il vicino spararsi un colpo di fucile in bocca che Bruno e Mirella si lasciano di nuovo. Forse per sempre. Il regista lascia un finale aperto. Bruno accompagna Mirella alla nave e lei torna all’Elba. Ma un anno dopo cominciano a scriversi e si raccontano la vita. Bruno ha aperto uno stabilimento balneare con i tre amici proprio dove volevano fare il capannone industriale, Mirella fa la baby sitter e la maestra d’asilo. Chissà come andrà a finire. “A Piombino tutto passa ma la vita continua”, conclude Virzì. Una splendida fotografia da cartolina su Piazza Bovio protesa sull’Isola d’Elba ce lo fa capire.
Il finale è toccante. L’amore di Bruno e Mirella forse non è destinato a morire, può risorgere dalle ceneri del passato, così come sta rinascendo Piombino grazie a una nuova speranza. Il futuro è il turismo, sembra dire Virzì, e se una ciminiera di troppo deturpa il panorama non fa niente, “ci si mette una siepe”.
Tra i tanti premi collaterali della Mostra del Cinema di Venezia 1994 il Ciak d’oro assegnato a La bella vita, quale miglior film presentato nel Panorama italiano, fu quello che trovò la maggior unanimità di consensi. Il film vince un David di Donatello per il miglior regista esordiente e due Nastri d’Argento, uno per Virzì e uno per la Ferilli. L’opera di esordio di Virzì si segnala per la professionalità degli interpreti e per la solidità della struttura narrativa. Sabrina Ferilli viene lanciata proprio da questo film, non solo per la bellezza conturbante, ma anche per il lato comico. “È un Totò con le tette”, afferma Virzì. Ghini e Bigagli sono due professionisti che prestano le loro maschere – la prima amara, la seconda goliardica – a due personaggi ben tratteggiati. Il film è girato in economia, ricorrendo a molti figuranti locali, costumi inventati sul momento e scenografie di fortuna. “Il film è rudimentale, coi primi piani e le scene ferme”, dice Virzì. Si nota, è vero, ma il fascino naïf che emana resta intatto forse proprio per quel motivo. Lo sceneggiatore Francesco Bruni ha molti meriti, la storia raccontata è un vero e proprio romanzo per immagini. I personaggi di Virzì mostrano un’anima, il suo melodramma di provincia è dotato di molto cuore e poca retorica. Virzì costruisce un film garbato e sommesso, dai toni lievi e coinvolgenti, ai limiti della commozione. Pochi i difetti tipici di un’opera prima. Forse solo l’eccessiva intromissione nella storia della voce narrante che cerca di ovviare a qualche discontinuità nel ritmo narrativo e anche una serie di inquadrature troppo lineari e accademiche. Per il resto un film da vedere e da rivedere sempre con piacere. Incasso ottimo: un miliardo e trecento milioni. A Piombino resta in cartellone quasi un mese scatenando furiosi dibattiti sulla stampa locale tra chi concorda con la visione del regista e chi avrebbe voluto una maggior attenzione al contesto esterno alla fabbrica. Non era compito di Virzì fare un film cartolina e neppure una favola buonista.
La critica è abbastanza soddisfatta. Pino Farinotti concede due stelle: “C’è qualcosa che lega questo film a Romanzo popolare di Mario Monicelli… i risultati sono soddisfacenti e il film risulta godibile. Discreto successo di pubblico. Risente di molti debiti verso la commedia all’italiana”. Farinotti imputa a Virzì una certa mancanza di originalità, anche se afferma che la confezione è buona. Morando Morandini arriva a due stelle e mezzo (tre di pubblico): “Pulizia descrittiva nell’analisi del malessere – antropologico e culturale prima che sociale – del ceto operaio che ha smarrito la propria identità, un trio d’attori che funzionano, comprimari con le facce giuste, ma anche una certa mancanza di energia narrativa, visibile specialmente nella ricerca annaspante di un finale”. Paolo Mereghetti conferma due stelle e mezzo: “Un esordio sincero che non si ferma alle mere storie di corna condominiali tanto in voga nel cinema italiano, ma inserisce la crisi coniugale in una prospettiva più ampia: quella di una vita di provincia in cui la ristrutturazione industriale incrina i valori e le possibilità di un’esistenza dignitosa e dove la televisione offre tentazioni volgari e illusorie. Debole (anche se apprezzabile) il tentativo di descrivere il mondo sindacale e operaio; riuscito, invece, li sforzo di creare personaggi che non siano marionette al servizio di un copione stereotipato. Non cinema da camera più servizi, ma cinema di attori e di storie con un certo spessore, senza lieto fine consolatorio. La Ferilli, ancora una volta, si conferma come la presenza più solida e luminosa nel panorama delle attrici italiane”.
Regia di Paolo Virzì. Soggetto e Sceneggiatura: Francesco Bruni e Paolo Virzì. Scenografia: Attilio Capelli. Costumi: Maria Giovanna Caselli. Direttori di produzione: Francesco Fantacci e Cesare Jacolucci. Suono in presa diretta: Bruno Pupparo. Montaggio: Sergio Montanari. Fotografia: Paolo Carnera. Musiche: Claudio Cimpanelli (Emi Music). Realizzato da Paolo Vandini per la Time International Film srl. Prodotto da Roberto Cimpanelli. Aiuto regista: Gianluca Greco. Interpreti: Claudio Bigagli (Bruno), Sabrina Ferilli (Mirella), Massimo Ghini (Gerry Fumo), Giorgio Algranti, Emanuele Barresi, Paola Tiziana Cruciani, Ugo Bencini, Raffaella Lebboroni, Roberto Marini, Silvio Vannucci, Mario Erpichini. Titoli in lavorazione: Dimenticare Piombino, Il fumo di Piombino.
Gordiano Lupi
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