I PRIMI DIECI QUADRI
1. K. e Julia
Inizio d’estate 1919, a Praga, in un salone di modista. K rivede la giovane e attraente Julie Wohryzek, che aveva conosciuto a Schelsen (vicino a Liboch), in febbraio, presso la pensione Studl , dove soggiornavano, entrambi affetti da tbc (“E’ una bella ragazza che spero sia soltanto un poco malata”).
In fotografia, Julie sembra seria e compita , ma in realtà doveva essere un peperino. K. la descrive così: “Innamorata del cinema, delle operette e commedie , della cipria e dei veli, padrona di una quantità inesauribile e irrefrenabile delle più sfacciate espressioni di gergo, in complesso molto ignorante, più allegra che triste, insignificante come, poniamo, il moscerino che vola contro la mia lampada” In realtà, K. è affascinato dalla vitalità e spensieratezza di Julie, con lei si diverte molto (non ha mai riso così tanto) e le chiede di sposarlo Lei è piuttosto restìa, ma K insiste e la convince .Fissano la cerimonia per novembre Appena ne viene a conoscenza Hermann Kafka, il padre di K, gli dice: “Sei proprio un imbecille!, quella ha indossato una camicetta che la faceva carina, le ebree di Praga se ne intendono, ha rialzato un poco le gonne, quell’oca nauseabonda, e tu hai perso la testa, hai deciso naturalmente di sposarla. E il più in fretta possibile, vero? Fra una settimana, domani, oggi!…non sai far di meglio che sposare una prima venuta?…Non ci sono altre combinazioni?…”
K. è come tramortito, fulminato dalla sua spaventosa preveggenza… Sette anni prima, nella “Condanna”, aveva messo in bocca al vecchio Bendemann esattamente le stesse parole a proposito della fidanzata del figlio George!!!
2.K. e Milena
A Praga corrono voci infamanti sulla giovanissima Milena Jesenskà, figlia di un docente universitario. Si dice che sia una drogata e una lesbica. Il padre la fa rinchiudere in in Istituto religioso, ma lei scappa e va a vivere con un certo Ernst Pollack, impiegato di banca un po’ scapestrato, che frequenta ambienti pseudo letterari. Il prof. Jesensky rintraccia la figlia e la fa rinchiudere in una clinica psichiatrica, dichiarandola pazza. Milena ne esce nove mesi dopo e, ormai maggiorenne, sposa Pollack, vanno a vivere a Vienna, arrabbattandosi alla meno peggio. Scrive articoli di cronaca su alcune riviste, dà lezioni di ceco e si lancia nelle traduzioni. Vorrebbe tradurre in ceco “Il fuochista”, che è il pretesto delle prime lettere tra K e Milena, allora ventitreenne, mentre K ne ha trentasette e le scriverà moltissime lettere d’amore: ” Amore è per me il fatto che tu sei…che tu esisti… …In te sento la vita che mi tende la mano…tu sei per me un principio, una luce nella tenebra…”
Si scrivono a lungo senza vedersi, anzi K esita a lungo prima di conoscerla di persona..teme che la realtà distrugga l’immagine ideale che si è forgiato di Milena…Ma l’incontro ci sarà, a Vienna, il 30 giugno 1921. Si vedranno qualche altra volta… Ma le lettere subito dopo si diradano; per K, che è gravemente malato, l’amore diventa motivo di ulteriore sofferenza…Non osa più aprire le lettere di lei, infine la supplica di non scriverle più…Sarà la sua Frieda ne “ Il Castello”, una sorta di Beatrice…(kafkiana, naturalmente).
3. K e Felice Bauer
K aveva conosciuto Felice Bauer il 13 agosto 1912, il giorno in cui si era recato a casa di Brod , il suo amico-editore , per un’ultima supervisione al manoscritto del suo primo libro , “Meditazione”. Probabilmente era stato lo stesso amico Max che l’aveva fatta venire, da Berlino , affinchè conoscesse Franz che gli aveva confidato le sue riflessioni sul matrimonio. “Lo dice anche il Talmud: Un uomo senza donna non è una creatura umana” . Un mese dopo ha già deciso di sposarla, e le propone di andare in vacanza con lui, in Palestina, nonostante una prima impressione del tutto negativa (“Viso ossuto e vuoto, portamento da domestica, vestita alla casalinga, naso quasi rotto , capelli biondi e lisci, senza attrattiva , mento robusto, denti orribili.”) che non trova giustificazioni nelle immagini fotografiche della ragazza. Si fidanzano, si scrivono tante lettere , ma il rapporto rimane sterile , totalmente sterile dal punto di vista della creazione. “Come potresti amarmi, io che sono l’essere più inetto, più disperso, più incerto”. Sei mesi intensi di corrispondenza in cui K confessa che la sua salute è appena sufficiente per se stesso, ma non lo è per sposarsi e men che meno per avere dei figli. Cerca di preparare Felice a sentire cose ancora più gravi e in marzo del 1913 si reca più volte a Berlino con l’intenzione di dirle tutto. Dopo aver incontrato, per la prima volta, i genitori della sua fidanzata, -che mostra “una languida indifferenza”, – K capisce che il loro rapporto è agli sgoccioli. Le lettere si diradano, i sentimenti si intiepidiscono, tutto sembra esaurirsi. Ma K., quasi a voler forzare il destino, propone a Felice il matrimonio, quale “ampliamento ed elevazione delle loro esistenze”. E’ la fine di maggio del 1913, ma a Luglio ci ha già ripensato e chiede alla fidanzata di dimenticarlo , di ” guarire da lui”. E si stupisce quando lei risponde che vuole tentare “l’impossibile”, che vuole “farsi carico di questa croce”.
Le dice: ” Ma non capisci che se vivessimo insieme diventerei un pazzo pericoloso che bisognerebbe bruciare?… Il suo problema non sta nell\’impossibilità di essere marito e padre, ma nel conciliare matrimonio e sessualità, quella “scoppiata sessualità delle donne, che è la loro impurità naturale”.. e ” il coito quale punizione della felicità di stare insieme. Vivere possibilmente da asceta, più asceta di uno scapolo, questa per me è l’unica possibilità di sopportare il matrimonio”. A Felice aveva già confessato che “il vero oggetto della mia paura – non si potrebbe dire o sentire una cosa peggiore – “è che non potrò mai possederti, Felice. Mi limiterò a baciare , come un cane forsennatamente fedele, la tua mano distrattamente abbandonata”… Eppure c’è chi , come Elias Canetti, ipotizza che K. abbia avuto un figlio segreto da Greta Bloch, amica intima di Felice , che si era prestata come intermediaria per salvare il loro rapporto in crisi.
4. K e Gerti Wasner
Nel giugno 1913, K parte per l’Italia: Trieste, Venezia, Verona, e infine Riva del Garda, al sanatorio del dottor von Hartungen. Da sempre, anche prima di ammalarsi seriamente, K ama soggiornare in questo genere di stabilimenti, solitamente situati in mezzo al verde, luoghi di riposo più che di cura con clientela piuttosto agiata , vita mondana che lui osserva con occhio ironico, dame molto belle, sole, annoiate, amori effimeri. A Riva, K si infatua di una giovanissima fanciulla svizzera , Gerti Wasner, che vive a Genova. E lo scrive a Felice: “Al sanatorio mi sono innamorato di una fanciulla, una bambina più o meno di diciotto anni , non è particolarmente matura eppure è piena di valore nonostante un carattere morboso, è veramente profonda. Ma forse per destare la mia attenzione nello stato di vuoto e desolazione nel quale mi trovavo sarebbe bastata una fanciulla molto più insignificante“. K non menzionerà mai il nome della ragazza, ma fornisce dati che fanno risalire facilmente a lei. Del resto tutto il loro rapporto amoroso consisteva in una discussione a colpi convenzionale , tra una camera e l’altra, qualche saluto dalla finestra, ascoltare qualche colpo di tosse o qualche lieve canto prima del sonno.
5. K. e Janouch Gustav
Janouch, giovanissimo poeta e musicista, figlio di un collega di ufficio di K, andò nel caffè ” Frankenstein” di Praga dove K si fermava a chiacchierare con gli amici. Cominciò a fargli domande sulla “Metamorfosi”, ma l’espressione del volto di K rivelò subito al giovanissimo poeta che gli era sgradito parlare del suo lavoro di scrittore. Gustav insistè…”La S del protagonista, Samsa, ha la stessa posizione della K in Kafka…parrebbe un crittogramma…” K negò che si trattasse di ciò, anzi disse che la metamorfosi non era una confessione, benchè in un certo senso, aggiunse, ” sia un’indiscrezione”.. “Indiscrezione, signore?” “Certo. Le pare lecito parlare delle cimici della propria famiglia? … Non usa nella buona società…Vede come sono indecente?…” E simise a ridere fort , come rideva lui quasi sollevando il viso nel cielo . Ma Gustav voleva indagare… “Io penso che la metamorfosi sia un sogno spaventoso , una spaventosa idea”, disse… Allora K smise di ridere e disse: ” Il sogno svela la realtà che l’Idea si lascia molto addietro. Questo è il lato tremendo della vita, la commozione dell’arte…Ma s’è fatto tardi…E’ ora che vada a casa” E rapidamente si accomiatò. Gustav si rammaricò, pensò che K se ne fosse andato per colpa sua. “Ma che avrà voluto dire? – si chiese. ” Bah, domani verrò a cercarlo qui…e lo costringerò a rispondere alle mie domande….” Ma l’indomani K non venne al caffè “Frankenstein”.Anche Otto e Max, i due fratelli ebrei amici di K lo aspettarono inutilmente. Gustav continuò ad aspettarlo giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, lo aspettò per tutta la vita. Ma K non si fece mai più vivo. Non mise più piede in quel caffè. Ma Gustav immaginò che K venisse tutte le sere al caffè Frankstein a parlare con lui , e alla fine , alla morte di K, di questi suoi incontri immaginari scrisse un libro e lo intitolò “Conversazioni con K.” “La vita – dice K – è smisuratamente grande e profonda, così come l’abisso delle stelle sopra di noi. Vi si può gettare uno sguardo solo attraverso quella minuscola apertura che è la nostra esistenza personale. Per questo bisogna che questa apertura sia sempre pulita”.
6.K, il paziente numero 12.
Il 27 marzo 1924 , mentre sta ultimando il racconto “Giuseppina la cantante”, K viene colpito da tubercolosi alla faringe e da Muritz, dove si trova, viene ricondotto a Praga, perchè possa godere un’assistenza migliore. Ma non c’è più niente da fare, peggiora così rapidamente che lo trasportano al sanatorio di Wiener-Wald, alla periferia di Vienna. Ma anche qui non possono fargli nulla, mancano le attrezzature necessarie per il trattamento di un caso così grave. Lo portano – sempre a Vienna – nella clinica del prof. Hajek, che non fa molto più di nulla che guardarlo da lontano. K è in uno stato di tale prostrazione psichica e fisica (soffre terribilmente) che a vederlo così, lo scrittore Franz Werfel non resiste e interviene per fargli ottenere una camera singola e un trattamento più riguardoso presso la stessa clinica . Scrive al Prof. Hajek una lettera accorata, mettendo la sua migliore prosa al servizio della necessità del momento. Il professore la legge e poi dice all’assistente: ” Un certo Werfel mi scrive che devo darmi da fare per un certo Kafka. Chi è Kafka lo so, è il paziente mumero 12. Ma chi è Werfel?” Nessuno sa dirgli chi è Werfel, così continua ad ignorare il paziente n. 12, che pochi giorni dopo viene trasferito , per decisione degli amici Dora e Klopstock, (lui è impossibilitato a muovere perfino la bocca e si esprime solo per iscritto) a Kierling, il sanatorio dei poveri, dove si spegnerà pochi giorni dopo, il 3 giugno 1924.
7. K e i libri.
A firma di Milena Pollak, “un principio, una luce nella tenebra”, esce quattro giorni dopo la sua morte un articolo sulla “Narodni listy”, dove si parla di lui e dei suoi libri. “Lui era timido, timoroso, delicato e buono, ma i suoi libri sono crudeli e dolorosi… i più significativi della letteratura tedesca contemporanea ; in essi esprime la lotta dell’attuale generazione, e tuttavia non sono mai tendenziosi. Essi sono autentici, nudi e dolenti, a tal punto, che anche quando si esprimono per simboli essi rimangono quasi naturalistici. Sono pervasi dall’ironia asciutta e dal sensibile stupore di un uomo che aveva compreso a tal punto il mondo da non poterlo sopportare e che doveva morire se non voleva come gli altri rifugiarsi nei compromessi o nei più nobili equivoci della ragione e dell’inconscio. Tutti i suoi libri descrivono l’orrore di misteriose incomprensioni, di colpe immeritate diffuse fra gli uomini. La sua coscienza di uomo e artista era a tal punto affinata da consentirgli di penetrare anche laddove gli altri, sordi, ritenevano di essere al sicuro.
8. Kafka e Klopstock
K soffriva talmente tanto che scrisse su un biglietto (che l’allora studente di medicina Klopstock conservò per anni come gelosa reliquia): “Mi uccida , altrimenti è un assassinio”. Klopstock prese il biglietto e gli fece avere del pantopon, e subito K si sentì un poco meglio, poi s’addormentò per un un po’, si svegliò di nuovo e comincio a delirare, forse aveva perduto la vista e scambio Klopstock per la sorella Elli. L’esortò , con i gesti, ad allontanarsi, perchè aveva sempre paura di contagiare qualcuno: ” Va’ via, Elli, non così vicino…” Quando Klopstock s’allontanò, il moribondo sospirò soddisfatto: “Così…così sta bene…” E poi morì, finalmente sereno. Klopstock si avvicinò a K , gli chiuse gli occhi e si mise lentamente a piangere, le lacrime gli scorrevano copiose sulle gote, piangeva come un bambino e non la smetteva mai. ” Noi non ci rendiamo conto – diceva fra le lacrime – di quello che è accaduto …La dolcezza della sua esistenza umana è perduta, soltanto il suo spirito incomparabile gli plasma ancora il viso rigido e adorato, fermo, severo, inavvicinabile, come era puro e severo il suo spirito. Un viso regale , bello come un antico busto marmoreo, un viso severo, di nobilissima stirpe….Questa è la morte di un innocente perseguitato, che cercò sempre la dimostrazione della propria innocenza nei confronti del suo inflessibile arcano tribunale… Il mondo ha perduto un genio….Ma servono davvero i geni per il mondo?”
9. K e il misticismo.
Come si fa ad affermare che non c’è nulla di mistico in K? E’… un non vedere la realtà dei fatti. A parte la sua vita (gli ultimi mesi della sua esistenza, vissuti “sulla soglia della felicità”, dice lui stesso, accanto a Dora Dymant) che è lì a testimoniare come si era avvicinato alla religione giudaica e considerò come un dono prezioso la fede che gli era toccata in sorte (e la spiegò da par suo in una lettera indirizzata nel gennaio/febbraio 1924 a a Minze Eisner), ci sono stati eserciti di critici di teologia delle più varie correnti che hanno visto nelle opere di K una specifica problematica religiosa. C’è chi ha equiparato la morte di Gregor Samsa , lo “scarafaggio” ,al sacrificio di Cristo e anche nel padre di George Bendemann, che lo condanna a morte per annegamento, molti vedono l’allegoria del trionfo di Dio, simboleggiato appunto dalla figura del padre, e del totale esautoramento dell’uomo, ma anche nel Castello ci sono parecchie similitudini con i Racconti del Graal e gli esempi potrebbero continuare all’infinito… La visione dell’uomo come creatura che deve strappare il senso della propria esistenza a forze anonime e sconosciute , e sempre ostili, informa di sè tutte le opere di K. La realtà appare come una serie infinita di inganni e di ostacoli che tengono l’uomo prigioniero di un mondo ostile, gratuito, caotico, inesplicabile. I modi e le forme della società borghese, – e soprattutto della burocrazia che ne costituisce la struttura – appaiono all’uomo che vive nella colpa della solitudine come epifanie negative di una irraggiungibile trascendenza che può manifestarsi solo come un tribunale e come istanza giudicante. La verità assoluta della LEGGE può così essere esperita dal singolo unicamente come verdetto assurdo e inappellabile , mentre l’esistenza può essere vissuta solo come punizione di cui non è dato conoscere la natura. Il singolo si trova dunque isolato dalla verità, e vani risultano i suoi sforzi per affermare la propria dignità di persona umana contro l’anonima autorità di una burocrazia di grotteschi e miopi funzionari che rappresentano solo l’anello finale di una infinita catena , all’estremità della quale si cela presumibilmente la giustizia DIVINA….
A tal proposito molti ritengono che la concezione kafkiana di tale realtà spirituale sia fondata sul tardo GIUDAISMO… La divinità può manifestarsi solo come una serie infinita di meschine formule legali del tutto assurde e impenetrabili alla ragione umana… Dopodichè, a ciascuno il suo concetto di ” misticismo”.
10. K è un illuso, che non sa morire
L’eroe di Kafka – secondo Sergio La Chiusa – è un illuso. Un condannato che spera fino all’ultimo, anche quando sente già la lama del coltello sul petto. Anche allora, quando non c’è più via di scampo, non guarda in faccia alla realtà, ma cerca di costruirsene una propria, fittizia. Nonostante tutti i segni inequivocabili di fallimento, ancora sposta gli occhi e cerca una luce per credere, per sperare. E questo è ancora più doloroso. L’uomo con il cappio intorno al collo che non vuole rendersi conto che tra pochi secondi il suo corpo ciondolerà come un sacco vuoto. Al contrario, la sua natura sempre rivolta alla speranza, a dispetto di tutti i segni sfavorevoli, gli fa credere che c’è ancora qualche possibilità, che non tutto è perduto, che forse l’istanza che gli concederà la salvezza è appena arrivata al tribunale supremo, e ora, propio ora, gli sarà concessa la grazia per cui ha tanto ostinatamente lottato. Gli eroi di Kafka non sanno neanche morire. Josef K. non accetta la morte. Josef K. non capisce la morte. Nessun Dio. Nessun Giudizio che giustifichi la condanna. Mi permetto di dare un consiglio per tutti i lettori. K. dovrebbe essere preso alla lettera; le sue parole hanno un peso specifico enorme, meglio non sovrapporgliene altre che non gli appartengono.
Augusto Benemeglio