Citazioni tratte da “Quaderni di Lanzarote” di Josè Saramago
Scrivere un diario è come guardarsi in uno specchio di fiducia, addestrato a trasformare in bellezza il semplice bell’aspetto o, nel peggiore dei casi, a rendere sopportabile la bruttezza massima. Nessuno scrive un diario per dire chi è. In altre parole, un diario è un romanzo con un personaggio solo. In altre parole, e conclusione, la questione centrale suscitata sempre da questo tipo di scritti è, credo io, quella della sincerità.
…tutto è autobiografia, che la vita di ciascuno di noi la raccontiamo in tutto ciò che facciamo e diciamo, nei gesti, nella maniera come ci sediamo, come camminiamo e guardiamo, come giriamo il capo o raccogliamo un oggetto da terra. (…) vivendo circondati da segnali, noi stessi siamo un sistema di segnali.
Mi insegnarono che l’uomo oltre a essere un animale razionale, era anche, per grazia speciale di Dio,l’unico che di una simile fortuna poteva vantarsi. Orbene, poiché le prima lezioni sono quelle che durano più a lungo nel nostro spirito, anche se, tante volte, nel corso della vita crediamo di averle dimenticate, ho vissuto vari anni aggrappato alla convinzione che, nonostante un certo numero di contrarietà e contraddizioni, questa specie di cui faccio parte usasse la testa come rifugio e studio della ragione.
Il pittore Goya, sordo e saggio, mi assicurava che è nel suo sonno che si generano i mostri, ma io ribattevo che, non potendosi negare la comparsa di tali fantasmi, una cosa del genere accadeva solo quanto la ragione, poverina, stanca dell’obbligo di essere ragionevole, si lasciava sopraffare dalla fatica e sprofondava nell’oblio di se stessa. (…) o la ragione, nell’uomo, non fa che dormire e generare mostri, oppure l’uomo, essendo indubbiamente un animale fra gli animali, è, altrettanto indubbiamente, il più irrazionale di tutti loro.
Lo spettacolo del mondo è, una dimostrazione esplicita ed evidente di quella che io chiamo l’irrazionalità umana. Vediamo l’abisso, è proprio lì davanti ai nostri occhi, eppure avanziamo verso di esso come una folla di lemming suicida, con la fondamentale differenza che, strada facendo, ci intratteniamo a trucidarci gli uni con gli altri.
Sulla memoria: «La memoria è uno specchio antico, con falle nello stagno e ombre immobili: c’è una nuvola sopra la fronte, una macchia al posto della bocca, il vuoto dove dovrebbero esserci gli occhi. Cambiamo posizione, giriamo la testa da un lato, cerchiamo, tramite giustapposizioni o lateralizzazioni successive dei punti di vista, di ricomporre un’immagine che ci sia possibile riconoscere come ancora nostra, concatenabile con questa che abbiamo oggi, già quasi di ieri. La memoria è anche una statua di argilla. Il vento passa e, a poco a poco, le porta via particelle, granelli, cristalli. La pioggia ammorbidisce i lineamenti, fa incurvare le membra, riduce il collo. Minuto dopo minuto, quello che era non è più e della statua non resterebbe altro che una sagoma informe, un impasto primario, se pure un minuto dopo l’altro non continuassimo a restaurare, a memoria, la memoria. La statua si manterrà in piedi, non è la stessa, ma non è un’altra, come l’essere vivente è, in ogni momento, altro e se stesso. Perciò dovremmo domandarci chi di noi, o in noi, abbia memoria, e quale sia questa memoria. E non solo: mi domando che inquietante memoria sia quella che talvolta mi assale di essere io la memoria che possiede oggi qualcuno che sono stato in passato, come se nel presente fosse infine possibile essere la memoria di qualcuno che fosse stato». (Tratto, con alcune modifiche, da un testo che ho pubblicato da qualche parte, non so quando. Ah, questa memoria).
Il piacere profondo, ineffabile, che è camminare in questi campi deserti e spazzati dal vento, risalire un pendio difficile e guardare dall’alto il paesaggio nero, scorciato, togliersi la camicia per sentire direttamente sulla pelle l’agitarsi furioso dell’aria, e poi capire che non si può fare nient’altro, l’erba secca, rasente al suolo, freme, le nuvole sfiorano per un attimo le cime dei monti e si allontanano verso il mare, e lo spirito entra in una specie di trance, cresce, si dilata, manca poco che scoppi di felicità. Che altro resta, allora, se non piangere?
8 ottobre.
Un settimanale francese, «France Catholique», mi invia alcune domande sul Vangelo, il mio. Vogliono sapere quali sono stati i criteri che ho adottato relativamente alle informazioni contenute nei Vangeli, ora prendendoli liberamente ora modificando gli atti, le parole, la cronologia, i luoghi, e perché ho inventato non solo nei «silenzi» del testo, ma anche nel corpo di quello che è stato «autenticamente trasmesso». Vogliono sapere anche se ho ignorato scientemente aspetti essenziali della tradizione giudaica, in particolare la Legge ricevuta sul Sinai, che «non è un catalogo di promesse, ma un contratto reeu et conclu tra il Popolo e Dio». E domandano pure: che esperienza mi ha portato a dare, in Dio come negli uomini, un posto tanto grande al male, al peccato, al rimorso, e nessuno al perdono; se considero le guerre nazionaliste e le lotte politiche come mezzi meno nocivi o alienanti della professione di fede dei credenti; se, visto che vangelo significa buona novella, penso che il titolo sia adeguato al libro; e infine per quale ragione ho tolto Maria da vicino alla croce.
Che rispondere? Primo, quanto ai criteri, che ho usato quelli del romanziere, non quelli del teologo o dello storico. Secondo, che un contratto decente deve esprimere e armonizzare la volontà delle due parti. Terzo, che prima di Gesù gli uomini erano già capaci di perdonare, ma gli dèi no. Quarto, che non si devono confondere le guerre (nazionaliste, o altre) con le lotte politiche, e che, sopratutto, è necessario rispettare la «santità della vita». Quinto, che il titolo è nato come è nato, e non c’è niente da fare. Sesto, che solo in Giovanni la madre di Gesù è presente, Matteo, Marco e Luca non la menzionano neppure.
Abitiamo fisicamente uno spazio, ma sentimentalmente, abitiamo una memoria.
Accostarsi a un testo poetico, qualunque sia il grado di profondità o ampiezza della lettura, presuppone, e oso dire che presupporrà sempre, una certa scomodità dello spirito, come se una coscienza parallela osservasse con ironia l’inanità relativa di un lavoro di disvelamento che, obbligato a organizzare, nel complesso sistema capillare della poesia, un itinerario continuo e una univocità coerente, al tempo stesso si obbliga ad abbandonare le mille e una probabilità offerte dagli altri itinerari, nonostante sia consapevole in anticipo che solo dopo averli percorsi tutti, quegli altri e quello che ha scelto, accederebbe al significato ultimo del testo, potendo anche darsi che la lettura pretestuosamente totalizzante cosi ottenuta venisse a servire solo per aggiungere alla rete sanguigna della poesia una ramificazione nuova, e imporre dunque la necessità di una nuova lettura. Tutti piangiamo la sorte di Sisifo, condannato a spingere su per la montagna una sempiterna pietra che sempiternamente rotolerà verso valle, ma forse il peggior castigo dello sfortunato uomo è quello di sapere che non arriverà a toccare neanche una sola delle pietre che, innu-merevoli, lo circondano e attendono lo sforzo che le sottrarrebbe all’immobilità.
Non domandiamo al sognatore perché sta sognando, non richiediamo al pensatore le ragioni del suo pensare, ma dall’uno e dall’altro vorremmo conoscere dove siano stati portati, o dove loro li abbiano portati, il pensiero e il sogno, quella piccola costellazione di brevità cui siamo soliti dare il nome di conclusioni.
Il poeta, a mano a mano che avanza, cancella le tracce che va lasciando, crea dietro di sé, fra i due orizzonti, un deserto, ragion per cui il lettore dovrà tracciare e aprire, sul terreno così spianato, una rotta sua, personale, che tuttavia non coinciderà mai, mai si giustapporrà a quella del poeta, unica e infine imperscrutabile. A sua volta il poeta, avendo spazzato via i segnali che per un momento hanno marcato non solo il sentiero da cui è venuto, ma anche le esitazioni, le pause, le misurazioni dell’altezza del sole, non saprebbe dirci percorrendo quale cammino sia arrivato al punto in cui si trova ora, fermo a metà della poesia o già alla sua fine. Né il lettore può ripetere il percorso del poeta, né il poeta potrà ricostruire il percorso della poesia: il lettore interrogherà la poesia fatta, il poeta non può fare altro che rinunciare a sapere come l’ha fatta.
«E una realtà che la velocità della parola elettronica cospira contro tale rapporto e bombarda la fertile solitudine della pagina in bianco. Il computer alimenta insidiosi nemici: la visualizzazione dello schermo e la soppressione delle correzioni creano l’illusione del testo perfetto, un testo che, più che leggersi, si vede. Impura illusione: confrontato con la realtà della stampa, lo scritto manifesta lacune e insufficienze: di ordine sintattico, di disarticolazione formale». E più avanti: «Lo scrittore che prescinda dalla fredda, dolorosa revisione a mano degli originali è condannato irrimediabilmente alla mediocrità. La parola creatrice ha bisogno del silenzio, della riflessione, dell’intenso amore che nella parola si consuma, e questo lo dà solo la carta o solo attraverso di essa si raggiunge». Miguel Garcia-Posada
Quelli che credono nella metempsicosi dicono che sono ricordi di vite precedenti, nostre o altrui. Nel secondo caso suppongo si punti sull’ipotesi che le anime, non potendo essere infinite di numero, vanno successivamente prendendo possesso di corpi differenti, e anche se, teoricamente, alla fine di ciascuna vita si chiude il rispettivo conto corrente, trasportando il saldo alla colonna dei guadagni e delle perdite generali, non è del tutto impossibile che una fattura smarrita nel tempo venga a introdursi nella contabilità del giorno in cui ci troviamo…
La mia proposizione iniziale, che mi azzardo a considerare indiscutibile, è che Dio creò l’universo perché si sentiva solo. Per tutto il tempo precedente, cioè da quando era cominciata l’eternità, era stato solo, ma, siccome non si sentiva solo, non aveva bisogno di inventare una cosa tanto complicata com’è l’universo. Quello su cui Dio non aveva contato è che, sia pure davanti allo spettacolo magnifico delle nebulose e dei buchi neri, quel tal sentimento di solitudine avrebbe continuato a tormentarlo. Pensò, pensò, e dopo aver tanto pensato fece la donna, che non era a sua immagine e somiglianza. Immediatamente dopo averla fatta, vide che era una cosa buona. In seguito, quando capi che sarebbe guarito definitivamente dal malessere solo coricandosi con lei, verificò che era ancora meglio. Fin qui tutto corretto e naturale, non c’era neanche bisogno di essere Dio per arrivare a questa conclusione. Trascorso qualche tempo, e senza che sia possibile sapere se la previsione dell’accidente biologico già si trovasse nella mente divina, nacque un bambino, questo si, a immagine e somiglianza di Dio. Il bambino crebbe, divenne ragazzo e uomo. Orbene, siccome a Dio non gli passò per la testa la semplice idea di creare un’altra donna per darla al giovane, il sentimento di solitudine che aveva afflitto il padre non tardò a ripetersi nel figlio, e a quel punto entrò in gioco il diavolo. Come c’era da aspettarsi, il primo impulso di Dio fu di finirla li con l’incestuosa specie, ma fu colto all’improvviso da una stanchezza, un fastidio a dover ripetere la creazione, perché di fatto anche l’universo non gli pareva più tanto magnifico come prima. Si dirà che, essendo Dio, poteva fare tutti gli universi che voleva, ma questo equivale a ignorare la natura profonda di Dio: logicamente, aveva fatto questo perché era il migliore degli universi possibili, dunque non poteva farne un altro perché giocoforza avrebbe dovuto essere meno bello.
Inoltre, quel che Dio adesso desiderava meno era ritrovarsi di nuovo da solo. Si accontentò dunque di scacciare le sue disoneste e ingrate creature, giurando a se stesso che, nel futuro, non avrebbe perso di vista né loro, né la perversa discendenza, nel caso l’avessero avuta. E fu cosi che tutto ha avuto inizio. Dio ebbe dunque due ragioni per conservare la specie umana: in primo luogo, per castigarla, come meritava, ma anche, oh divina fragilità, perché gli facesse compagnia.
Il tempo è una fascia elastica che si tende e si ritira. Stare vicino o lontano, là o qua, dipende solo dalla volontà.
Se puoi vedere, guarda. Se puoi guardare, osserva.
21 gennaio.
Sulla fotografia.
Le mani sollevano la macchina fotografica all’altezza degli occhi e il mondo scompare. Rapido o lento, secondo il grado di urgenza o di provocazione dell’immagine che sarà captata, il movimento delle mani ha risposto a uno stimolo visivo. Ora, da dietro il visore, l’occhio farà riapparire, non il mondo, ma un suo frammento, quel poco che può contenerne un rettangolo i cui lati, come lamine insensibili, tagliano e rifilano il corpo della realtà. In quell’estremo e infimo istante che precede lo scatto dell’obiettivo, e come se lungo le linee che imperativamente delimitano il visore esistesse una rete microscopica di condotte, il mondo esterno cercherà ancora di penetrare nello spazio che gli è stato sottratto, per lasciarvi un segno della sua obliterata dimensione. Frammento di un tutto o della sua apparenza, ogni fotografia, a sua volta, è frammento di frammenti, e, per un movimento di approssimazione ed espansione in tutte le direzioni, contemporaneamente al movimento contrario di conversione al punto di risoluzione che infine è, diviene, nell’immagine unica che presenta, lettura multipla del mondo. Ma questo ci verrà mostrato solo in seguito, quando l’immagine colta sarà passata, rivelata, sulla carta. Allora sapremo veramente cosa abbiamo visto, quando e dove ritenevamo solo di non aver fatto altro che guardare.
Sparpagliamo davanti a noi le fotografie, le disponiamo per temi, argomenti, affinità, vogliamo che alcune facciano domande e altre rispondano, vorremmo che raccontassero una storia, anche se breve, anche se non dovessimo arrivare a conoscerne la fine. Ma sembra faccia parte della natura delle immagini, seppure colte da uno stesso oggetto e in un periodo di tempo minimo, che siano restie a perdere la loro identità: ciascuna vorrà essere, per ipotetiche ed esclusive virtù proprie, l’alfa e l’omega, non solo della comprensione di se stessa, ma anche di tutte le decifrazioni possibili dello spazio invisibile che la circonda, di quell’assenza rappresentata dal biancore dei margini. Quello che la fotografia non può mostrare è proprio ciò che presterebbe un senso di realtà a ciò che stesse mostrando. Per questo forse è corretto affermare che l’occhio che guarda la fotografia, proprio perché ciò che vede è fotografia, non è lo stesso, pur essendo lo stesso, che ha guardato e visto una parte del mondo per fotografarla.
22 gennaio.
Su volti e mani.
C’è chi fotografa volti, cercando nei loro tratti il cammino verso uno spirito che si crede abiti dietro di essi; contenta di captare la superficie piana e ovvia di una bellezza o di una bruttezza inspiegabili in se stesse; c’è chi accetta di farsi sorprendere dalla fotografia che ha scattato, proprio come si aspetta che venga a sorprendersi il suo osservatore. Oltre che un’immagine, che sarà allora il volto per il fotografo? Un discorso, una voce, una pluralità di discorsi e di voci? Espressivi sino alla frontiera dell’ineffabile, i volti sono ciò che più facilmente mostriamo e ciò che più di frequente occultiamo. I visi sono veramente autentici solo quando colti alla sprovvista: la paura, la collera, un impulso che non si può controllare, esprimono la verità totale di un volto. In situazioni non estreme il volto è quasi sempre, e soltanto, un certo volto riferito a || una certa situazione. E questo il motivo per cui è capace di rivestirsi tanto facilmente di espressioni utili, simulando un sentimento che non prova, un’emozione quando il polso si mantiene fermo e il cuore tranquillo, un interesse quando è indifferente. O il contrario.
Poiché sono, senza dubbio, strumenti della volontà, della necessità o del desiderio, le mani sono, ciononostante, incomparabilmente più libere del volto. Assumiamo un’espressione del viso, non guidiamo l’espressione delle mani, e se talvolta tentiamo di farlo, ben presto esse recuperano il loro autonomo modo di essere, contraddicendo spesso, senza che noi ce ne rendiamo conto, quello che il volto, artificiosamente, vuole far credere. Dicono gli antropologi che a loro, in gran parte, dobbiamo il cervello che abbiamo. Non si stenta a credere che sia cosi, tant’è facile sapere cosa sia un cervello, solo guardando ciò che fanno le mani.
Titolo: Quaderni di Lanzarote
Autore: José Saramago
Prezzo copertina: € 18.00
Editore: Einaudi
Collana: Frontiere Einaudi
A cura di: P. Collo
Traduttore: Desti R.
Data di Pubblicazione: febbraio 2010
EAN: 9788806198220
ISBN: 880619822X
Pagine: 190