A cura di Marco Crestani
E’ la storia di un prete prigioniero del segreto della confessione. Non è però un film a sfondo religioso. Hitchcock, cattolico e praticante, non ha nulla – ci pare – del mistico o del proselito. Nei suoi film si parla di Dio (ciononostante restano profani), ma i protagonisti non sono attraversati da nessuna inquietudine propriamente religiosa.
Il soggetto all’origine di I Confess è anzi piuttosto mediocre e melodrammatico, derivato da una pièce dimenticata del dimenticato Paul Anthelme e un bel giorno riesumata da Louis Verneuil. Hitchcock comunque vi apportò sostanziali modifiche. Per la prima volta, dai tempi di L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt. 1943), non si rivolse a uno sceneggiatore di professione, ma a un romanziere cattolico, Paul Tabori, e a un drammaturgo, William Archibald, che prima aveva curato l’adattamento teatrale di The Turn of the Screw di Henry James. Keller (O.E. Hasse), il sagrestano di una chiesa del Québec, ha commesso un omicidio per rubare. Rivela il suo delitto, in confessione, al vicario della parrocchia, padre Logan (Montgomery Clift). La vittima è un certo Villette, proprio quello che intendeva ricattare il prete perché lo aveva sorpreso, prima che prendesse i voti, in compagnia di una donna sposata (Ann Baxter). Logan manca di accortezza e così finisce per attirare i sospetti su di sé.
In questo film il problema non è sapere se il prete resterà fedele o meno al segreto. Non si tratta nemmeno del classico conflitto tragico tra la fede giurata e la tentazione, o la scusa, delle circostanze. Insieme alla paura fisica – motivo esteriore che innesca la «suspense», peraltro tenuto in secondo piano, padre Logan scopre un terribile, vertiginoso senso di colpa. Nel confessionale ha assunto su di sé l’altrui peccato in virtù della sua stessa innocenza. Ma questa innocenza forse è solo apparente. Il nostro eroe non è un individuo di purezza assoluta, non fosse altro perché presta il fianco alla calunnia. Prete, non è più un uomo come gli altri. L’ordinazione ha cancellato il suo passato come il battesimo cancella il peccato originale. Ora, questo passato, gli viene gettato in faccia dal mondo, dalla polizia, dalla giustizia. Il suo errore, se di errore si tratta, non sta nel fatto di essere stato un uomo e basta, ma, al contrario, di cedere all’intimidazione, al ricatto, di voler riscattare con una condotta eroica, paradossale, quel che non si può più redimere. Di cedere alla tentazione del martirio. Oltre a una allegoria della Caduta, assistiamo dunque a una situazione tragica degna di questo nome. Hanno gridato all’inverosimiglianza. Logan non poteva forse trovare qualche scappatoia? Forse. Di certo non voleva. Ma allora si comportava da santo o da presuntuoso? Non è compito del poeta tragico giudicare i suoi simili. E poi il passato – fardello sempre grave in Hitchcock, che faccia pensare alle pagine della Genesi o alla «riminiscenza» platonica – questo passato di Logan viene scoperto con un magnifico flash-back, al suono di una melodia di Dimitri Tiomkin che più indovinata non si può. Sentiamo che tra quel passato e il presente c’è una discordanza che a tutti i costi occorre risolvere, soffocare, prima che scatti il meccanismo. Un meccanismo avviato con gusto dall’ispettore di polizia; quanto al procuratore, il giorno del processo: «Se già le è accaduto, in un impulso di collera, di picchiare Villette, quando insultava una signora, per quale motivo avrebbe dovuto resistere alla tentazione di ucciderlo, quando erano in gioco la reputazione della signora e la sua?». Logan non sa cosa rispondere. Comunque la giuria, per mancanza di prove concrete, lo assolve. E’ da questo momento che comincia il suo vero calvario. La folla non accetta la sentenza. In mezzo alle urla, con dignità, senza neanche un rimedio per lavare la vergogna, il prete esce lentamente dall’aula. Tra i volti ostili della gente lo vediamo solo, come il Cristo che porta la croce, mentre scende la grande scalinata del tribunale. Poi, ai piedi della scalinata, la calca, gli spintoni: come Cristo, ancora, cade, incrinando col gomito lo specchietto di un’automobile. E’ a questo punto che interviene Dio – o per lo meno tutto avviene come se fosse così. Qualcuno lancia un grido. E’ la signora Keller. La donna ammette le colpe del marito e, di fatto, ne convalida la confessione: non è un ricattatore, ma solo un blasfemo. Keller scappa.
Il film si chiude con un inseguimento d’ispirazione classica, ma magnificato dall’eroismo di Logan – con sprezzo della vita, tenta di salvare il sagrestano – e dalla terribile risposta di Kefler: «Lei è più disgraziato di me, padre. Tutti l’abbandonano. Sarebbe meglio per lei se fosse morto». Il privilegio costante delle inquadrature dal basso conferisce ai personaggi e alle scenografie la maestà di rigore. Il ritmo è più lento, il montaggio meno spezzettato, la macchina da presa segue il personaggio principale, anzi, la stessa andatura di padre Logan è il motivo conduttore del film. Nelle due scene più belle, Hitchcock trae profitto da una raffinata combinazione della ripresa continuata con gli effetti di montaggio. Una è la scena già citata del tribunale. L’altra si svolge nella chiesa un po’ prima dell’arresto di Logan. Un movimento di macchina accompagna il prete mentre attraversa la navata in direzione dell’altare, lì dove si trova Keller che sta sistemando dei fiori. Il sagrestano, colto di sfuggita in primo piano, lo squadra con aria interrogativa. Attacco sul movimento e controcampo, raccordo quasi invisibile e di mirabile audacia; nuova carrellata sui due uomini mentre, l’uno dietro I’altro, si dirigono verso la sagrestia. Keller ferma Logan: altri primi piani. Sguardi che tradiscono la paura, paura che cresce in ciascuno a vederla nello sguardo dell’altro. Sguardo vitreo del primo per mascherare il terrore dietro il sarcasmo, duro e fiero del secondo, ma già attraversato da quel panico che l’altro crede di leggere nei suoi occhi. Sguardi densi di significato, gravidi di una vertigine insondabile, degna replica dello sguardo di Ingríd Bergman in Under Capricorn. Del resto, Hitchcock utilizza gli sguardi, lungo tutto il film, come linee direttrici della trama, canali conduttori destinati a far defluire l’eccedenza delle coscienze: lo sguardo del poliziotto (Karl Malden) che sorveglia con un solo occhio l’interlocutore, mentre questi ci nasconde l’altro con la sua testa; l’incontro tra il prete e la moglie del consigliere; in tribunale, lo sguardo di Logan durante l’ínterrogatorio, al processo, nella scena finale… In questa storia dove la bocca del protagonista resta volontariamente chiusa, solo gli sguardi ci permettono di accedere agli arcani del suo pensiero. Dell’anima, sono i più degni e fedeli messaggeri. Il tono di questo film che non lascia posto all’umorismo. Tutt’al più possiamo distinguere una breve notazione satirica, l’interrogatorio delle due scolarette, e soprattutto qualche incidente insolito, più inquietante che comico: la caduta dalla bicicletta, l’improvvisa apparizione del mazzo di fiori portato da Keller mentre Ann Baxter esce dalla chiesa. Se ci teniamo a ridere, Hitchcock ci ha offerto tante altre occasioni. Io confesso (1953), un film di Alfred Hitchcock, con Montgomery Clift, Anne Baxter, Karl Malden, Brian Aherne.
Marco Crestani
Titolo Originale: I CONFESS
Regia: Alfred Hitchcock
Interpreti: Brian Aherne, Karl Malden, Anne Baxter, Montgomery Clift
Durata: h 1.35
Nazionalità: USA 1953
Genere: giallo
Al cinema nell’Aprile 1953