L’inverno non era ancora finito: tingeva di bianco e di grigio le nuvole basse, colava dai palazzi gorgogliando nelle grondaie, si posava sui visi stanchi di chi camminava radente i muri, gli occhi bassi, le mani in tasca.
Quel pomeriggio una striscia chiara d’azzurro aveva colorato il cielo inondando di una luce nuova, da acquario, un mondo sonnolento e creando trasparenze insolite su cui scorrevano pigre, come immagini diafane, i tranvai e le macchine del viale mentre i pochi passanti, con il bavero alzato e l’ombrello al braccio, rallentavano il passo e davano brevi occhiate al cielo per riprendere, poi, il cammino e i pensieri interrotti. Guardando dalla finestra del suo ufficio questa luce irreale e falsa, l’ingegner Lorenzi rimuginava i suoi pensieri e neppure la breve lama di sole che si era insinuata nel varco tra le nuvole, bassa e radente, bastava a fermare quei serpi in corsa disordinata che gli roteavano da giorni nel cervello. Commesse sfumate, offerte superate per un pelo da dittucole senza storia, funzionari che allargavano le braccia mentre le vendite si assottigliavano di giorno in giorno e i suoi interrogativi restavano senza risposta: la parola tradimento aveva preso il posto di regina nei suoi pensieri e attorno ad essa roteavano gli estratti conto delle banche, i solleciti dei fornitori, la visione del magazzino e tanti nomi. Alcuni di questi vorticavano sin dal mattino, altri nuovi, impossibili, nati da poco, scritti sulle nuvole che scorrevano lente sulla vetrata dell’ufficio. Ed allora l’ingegnere era sceso in strada, esausto, prendendo di furia cappotto e cappello, lasciando a mezzo, sulla scrivania, carte e conteggi. Voleva immergersi in quelle luci false, in quelle ombre, quasi fossero utili per fermare un poco il giro dei pensieri. O, forse, solo per sentire piangere il mondo sopra lui. Ma la strada non era servita: il vortice che aveva in testa, malamente nascosto dietro il viso accigliato, stava diventando sempre più furioso, tanto da sentire un che di fisico, di reale: quasi uno scotimento di cellule e sangue, un’avvilupparsi di nervi che tiravano organi e membra. Le mani, fuori dal suo volere, gli artigliavano le falde del cappotto o, in tasca, stritolavano biglietti e monete. Poi, da sole, salivano alla gola a sentire il respiro affannoso, raspavano le guance, torturavano le orecchie, stringevano le falde del cappello, sformandolo, tirandolo sulla fronte e sulla nuca e sugli occhi, rendendo così il mondo ancora più piatto e oscuro davanti.
Passando davanti alla vetrina di un negozio gli si parò dinanzi l’immagine translucida di un vecchio dal viso paonazzo, appeso a due mani ad un cappello a pan di zucchero: tra i riflessi del vetro scorse che lì dentro qualcuno lo guardava fisso dando di gomito ad un altro e nell’arco di un secondo dilatato lui vide – o gli parve di vedere – sillabare il suo nome e qualcuno ridere, girare il capo, nascondersi alla vista.
Tornare in ufficio? Restituire al mondo l’immagine che il mondo si aspettava?
L’immagine dell’ingegner Lorenzi, cavaliere del lavoro, austera e solenne, così come era stampata, a lettere dorate, sull’atrio e sulla porta?
No, no!, gridò muto ad un semaforo rosso, no!, fece, seguendo con gli occhi una macchina che sfrecciava all’incrocio.
Non con questa maledizione addosso!
Rivide la grande stanza del suo ufficio, tappezzata di stoffa e legno; i quadri, i campioni dei prodotti sulle mensole, i diplomi di benemerenza, gli attestati. Rivide la sua scrivania di acciaio e vetro, il portacenere con il logo aziendale, i mignon dei prodotti come portapenne. E la poltrona dallo schienale immenso, vuota. Ne risentì l’odore di spezie e legno. Gli turbinarono anche i nomi degli impiegati che l’avrebbero salutato nell’atrio e nel corridoio, e quei nomi si sovrapposero ad altri, si storpiarono, quasi si annullarono in un marasma pastoso e viscido. Freddo. Ed intanto cercava di rimettere a posto il cappello, di lisciarsi il soprabito, di rallentare il respiro, guardando in faccia i passanti, strizzando gli occhi nella penombra delle luci rosate dei lampioni appena accesi. A questo punto i suoi pensieri presero una direzione diversa, muovendosi a tentoni nel suo cervello dolorante, come un cieco che cerchi una via d’uscita da una stanza ignota.E come un cieco – pur nell’ansia che lo devastava – lui tastò ogni anfratto della sua attuale esistenza, cercando qualcosa, senza saper bene cosa; cercando qualcuno, senza trovare un nome.
Forse, tornando a casa… – balbettò al muro grigio che gli scivolava accanto – … e rimettere a posto i pensieri… una soluzione… una soluzione… per aver pace… – e i suoi passi rallentarono, pronto a tornare indietro, verso il garage.
Si fermò, quasi. Ed il muro grigio gli scivolò più piano sulla destra, mostrandogli le crepe e il muschio e i cartelloni umidi e strappati – Ma è davvero questo che voglio? Indossare un’altra maschera, portarmi appresso il fuoco che mi mangia dentro, soffrire come un cane con quei pensieri e quei nomi appesi nel cervello? Crepare da solo là dentro?
Solo: ecco.
Una parola secca, tagliente come un rasoio. Nel pronunciarla l’aria sembrò sibilargli attorno, scudisciata da quelle due sillabe. E intanto visualizzava l’interno della sua villa, la moglie troppo giovane, la suocera, la vecchia madre. E con loro, come comparse senza voce, la cameriera, la cuoca, l’infermiera ad ore, il giardiniere. Ora, insieme alle fatture, ai solleciti delle banche e ai nomi di possibili infami, si misero a vorticare dentro di lui tutte le figure, i nomi e gli atti di chi si annidava in quella villa.
La moglie, Elisa: una pazzia del benessere, comprata a caro prezzo assieme alla madre vedova. Empie la villa con il suo giovane corpo: gambe e seni che sgusciano dalla vestaglia in un rito studiato, moltiplicati dai riflessi degli specchi e dei vetri; il viso seminascosto dai lunghi capelli neri che scuote come una lucida criniera. Quando non è nascosto, quel viso rimanda l’immagine di una bambola di porcellana: un viso perfetto dai grandi occhi vitrei, le labbra rosse e carnose, semiaperte in un sorriso ebete.
L’ingegnere vide l’Elisa uscire dalla piscina coperta, accanto al salone. Ad occhi chiusi la immaginò grondante d’acqua, accompagnata da una nuvola di vapore, il solito sorriso stampato sulle labbra. La osservò mentre si strusciava molle nella vetrata lasciando l’impronta umida delle natiche sul vetro, prima d’indossare l’accappatoio e stiracchiarsi sulla sdraio. Vide gli auricolari che le penzolavano dalle orecchie e riuscì persino a sentire il ronzio della musica ritmata: milioni di api frullavano in quelle orecchie prima di spandersi attorno, con lo stesso battito d’ali, all’unisono.
Tra poco – pensò – l’Elisa farà scivolare l’accappatoio sulle mattonelle ruvide e inguainerà il suo corpo in una vestaglia sottile: la vetrata rimanderà baluginii di sete e di pelle e il sottofondo ronzante l’accompagnerà ancora per tutta la casa finché sarà pronta per la rappresentazione serale. Nel grigio maculato di verde lucido, tra gli alberi del viale, la figura snella dell’Elisa ad un tratto parve sdoppiarsi: accanto a lei la madre, il viso maturo incatramato in strati di cipria, gli occhi incantati come quelli della figlia e di questa assumendo a volte le vesti di sorella maggiore e a volte di antagonista. Entrambe ridono, si toccano, si guardano l’un l’altra, con aria interessata. Si accarezzano le carni e le vesti; spesso si contano a vicenda le rughe o discutono imbronciate attorno alla bilancia pesapersone contando le sconfitte e le vittorie della loro personale lotta contro il tempo. Più tardi l’argenteria rifletterà guizzi di tovaglie e posate, cappellini bianchi e grembiuli immacolati, e visi di donne affannate a dar ordini o ad eseguire, in un girotondo quasi infantile tra mobili d’epoca.
Anche la suocera, a quest’ora, si starà preparando per la rappresentazione serale della cena. E di quella preparazione lui ormai conosce quasi tutti i particolari, scoperti, quasi per caso, ad ogni suo ritorno improvviso oppure interpolati dalla sua fantasia. La suocera in raso verde mare, la moglie in seta rossa, entrambi con motivi floreali. Oppure a righe, a disegni cachemire o a tinte unite, cangianti. Colori diversi, motivi uguali. Anche le voci uguali: squillanti, argentine: due campanelle che di sicuro non smettono di trillare se non quando la sua macchina smuove i ciottoli di fiume nel viale d’ingresso.
Anche stasera prepareranno la rappresentazione per gli ospiti – disse Lorenzi al viso sorridente d’un cartellone pubblicitario – Chi saranno gli ospiti, stasera?
Per un attimo si sforzò di estrapolare altri nomi da quelli che con furia gli balenavano in testa: doveva pure conoscerli bene quei nomi perché era stato lui che aveva fatto gli inviti: sua moglie e sua suocera non hanno amici. Quelli che avevano da poveri sembra che li abbiano dimenticati nell’altra vita.
* * *
Le luci divennero ad un tratto più forti, i lampioni più vicini: Lorenzi era ormai giunto alla fine del viale, quasi al centro della città. Fantasticando, non si era accorto di aver camminato tanto. Superato un incrocio, le macchine diradarono e si aprì la città vecchia con i suoi vicoli, i negozi illuminati, l’anonima folla dei passanti.
Scenderà anche mia madre stasera o sarà indisposta? – si chiese mentre s’incamminava per viuzze sempre più ripide con alti palazzi dai grandi portoni istoriati, oscuri basamenti di un cielo nero – Quali e quanti sintomi elencherà mia madre quando andrò a trovarla nel suo appartamento? Quali strani malesseri le avrà portato la nuova agiatezza?
Ecco cos’è mia madre: una vecchia guerriera troppo impegnata in una lotta più grande di lei che non ha più il tempo per ascoltare gli altri, fosse anche suo figlio. Ogni secondo le è necessario. Lotta anche lei, come mia suocera e mia moglie. Sì, è vero, le chiama di nascosto “puttane” ma forse intimamente le rispetta. In fondo tutte e tre hanno un nemico comune: il tempo. E spesso hanno in comune anche gli aiutanti di campo: l’infermiera, il medico, l’estetista. Lottano con il loro piccolo esercito personale di specialisti e laboratori di analisi. Anche i consigli di guerra periodici li tengono, sia pure separatamente, nella stessa clinica di lusso.
* * *
Lorenzi aveva già imboccato un vicolo in salita, uno dei tanti, scelto forse per l’oscurità che l’avvolgeva, in cui la sera era già notte. A metà del vicolo si appoggiò allo stipite di un portone fingendo di guardare la pulsantiera d’ottone: era stanco. Stanco della salita e, più ancora, della furia con cui brandelli di pensieri, disordinati e chiassosi, roteavano attorno ad un unico centro dove intanto vedeva scomparire, nel silenzio abissale di un buco nero, qualcosa di importante. Quei pensieri monchi galleggiavano inerti, come residui nella melma, assieme a frammenti di piccole cose lucide e colorate, ormai sporche e distorte come vermi agonizzanti. E quelle cose ruotavano assieme a nomi, pensieri, parole, figure, anch’essi minuscoli e accartocciati come biglietti usati dell’autobus. Con in testa questa immagine si staccò dallo stipite, fece alcuni passi e per poco non inciampò in un fagotto.
Nell’oscurità del vicolo, vicino al portone, stava sdraiato un vecchio, imbacuccato in una coperta con ai piedi un cane tra fagotti e scodelle. Un cartone foderava quel tratto di marciapiede, utilizzato dal vecchio e dal cane. Un lembo della coperta, in più punti strappata, copriva anche la schiena curva dell’animale accoccolato.
– Ti voglio parlare. – disse Lorenzi d’impeto, accosciandosi un poco e tirando fuori un biglietto da cento che sventolò davanti al viso del vecchio. La sua voce aveva ancora un’eco di autorevolezza che ora sentì falsa e flebile, come la luce che entrava nel vicolo dal lontano lampione. Guardato da vicino quell’uomo non era poi tanto vecchio: Lorenzi stimò che poteva avere suppergiù la sua età.
– Ti voglio parlare – ripeté più piano, quasi in un sussurro
– Ho bisogno di parlare con qualcuno, lo capisci?
Il foglio da cento oscillava nell’aria appeso alla sua mano tremante. L’uomo guardò lui poi il biglietto e scosse le spalle. Pronunciò qualcosa di incomprensibile in una lingua straniera e fece segno che non capiva, ma intanto fissava con gli occhi sbarrati quel biglietto senza osare afferrarlo.
– Non capisci, eh?
– fece l’ingegnere con più foga
– Non importa. Io parlo lo stesso. Io devo parlare! Ti dirò tutto. Tutto!
E tu devi ascoltarmi. Ascoltarmi, capisci? Ascolta almeno il suono delle mie parole. Solo il suono. Ascoltami, ti prego!
Lorenzi si fermò ansante, piegò il biglietto da cento e lo ficcò a forza in una tasca della giacca dell’uomo seduto. Sentì sotto le dita il ruvido e l’unto della stoffa e si soffermò a toccare anche il bavero e la coperta. Erano cose dure e aspre. Cose nuove. Le sentiva galleggiare nel suo gorgo personale, le poteva seguire nel loro giro ma non sprofondavano insieme alle altre cose. Poi la sua mano scivolò in basso finché incontrò il pelo morbido del cane, su cui indugiò con una carezza. Il cane si mosse appena, sollevò un poco la testa dal cartone e subito dopo, rassicurato, la ripose tra le zampe, un occhio semiaperto, le membra abbandonate a quella carezza inaspettata.
E l’ingegner Lorenzi, mezzo sdraiato sul cartone, vide e recitò la sua vita, osservando, da spettatore, i quadri che gli si paravano davanti. Scartò i pensieri recenti e s’immerse in visioni di cieli limpidi, campi e colline miracolosamente conservati e risorti alla memoria, sentì l’affanno di corse gioiose tra case terrane e vicoli assolati in cui si sentiva il sapore del mare. Ed ancora: rivide un cortile, il viso dolce di una ragazza con due occhi troppo grandi e troppo chiari, e con un nome semplice, comune, un nome che sapeva di fiaba, un nome che aveva gridato nel gioco, correndo sulla rena calda in riva al mare. Pian piano i piccoli pezzi di ogni visione si incastrarono tra loro, le immagini divennero sempre più ferme e chiare, riflesse dagli occhi sbarrati di quell’uomo che ascoltava impaurito o incantato. Ora quelle immagini non mulinavano più, non si disperdevano più nella notte ma si componevano in un quadro sereno in cui riusciva a scrutare i particolari più minuti. E man mano che le visioni si completavano, coprendo con i loro colori gli incubi del giorno, l’ingegner Lorenzi riuscì di nuovo a sorridere finché, ad un tratto, il sorriso divenne un riso soffocato, singhiozzante, che presto si trasformò in un riso aperto, felice, fresco d’acqua e di luce. Ed allora anche il mendicante cominciò a ridere con lui, dapprima incerto, poi sempre più forte, accostandosi un cartone di vino alla bocca, brindando a quel soliloquio incomprensibile e a quell’improbabile compagno di baldoria.
Il cane sollevò di nuovo la testa, guardando entrambi con aria interrogativa, poi rise anche lui, a suo modo, tambureggiando il cartone con ritmici colpi di coda. Lorenzi ora taceva: aveva esaurito le visioni dei suoi ricordi più belli. Solo per un momento si chiese se aveva ancora qualcosa da aggiungere alla sua storia: stranamente non gli venne in mente nulla di veramente reale e importante. Solo incubi insulsi spariti nel buio.
Enzo Maria Lombardo
un’autopsia curata e attenta che mette in luce il susseguirsi del vortice che ci avvolge e in esso ci proietta, mentre ci sforziamo a sopravvivere al mondo che ci siamo creati, un mondo che rischia di soffocarci, fagocitarci. Meno male che anche se per un istante ci sta un cane disposto a “sorriderci”. Lo rileggo con molto, molto piacere.