A cura di Enzo Maria Lombardo
A sedici anni mi piaceva girare per Roma e, camminando, mi spingevo sempre più lontano, cercando di scordarmi un poco la borgata mia e quello che ci stava dentro. E così vagavo tra le aiuole e gli alberi del Pincio, che già si vestivano di primavera, oppure salivo a Villa Giulia e poi scendevo tra le vie più antiche del centro o strascicavo i piedi al Lungotevere e fra i ponti e tra le strade piene di gente indaffarata.
E, camminando, mi guardavo riflessa nelle vetrine e più mi guardavo e più non mi piacevo così conciata con i jeans scoloriti, le scarpe da tennis col buco nel ditone e la maglietta stinta e senza forma.
Me li mangiavo con gli occhi i bei vestiti esposti nei negozi. Certe gonne che a metterle m’avrebbero dato qualche anno di più, ché n’avevo bisogno. E certe camicette affiancate, dai colori vivi e con i riporti traforati che sembravano fatti apposta per la mia misura.
A Prati, verso la mezza, in un negozietto d’angolo, mezzo nascosto da un chiosco di giornali e dalla pensilina degli autobus, mi decisi. Volevo almeno provarla, quella roba, anche se avevo in tasca solo i soldi per tornare a casa con la metro.
C’era solo il padrone in quel negozio, un tipo allampanato che poteva avere sì e no una cinquantina d’anni, forse meno, con una zazzera nera e due occhietti vivaci incorniciati da occhiali a mezzaluna. Teneva aperta sulle ginocchia una rivista e stava stravaccato in una poltroncina di vimini davanti al bancone di legno, facendosi vento con un ventaglio di carta colorata.
Quando gli indicai il vestito in vetrina e gli dissi che volevo provarlo mi squadrò tutta e non sembrava troppo convinto.
– Fra poco chiudiamo, ragazzina – mi disse – E’ la mezza passata. Non puoi tornare nel pomeriggio?
– Sto lontano – risposi scotendo la testa. – Se non può, pazienza.
Quello continuò a guardarmi e sembrava indeciso se alzarsi o no, poi dovette pensare che anche le tipe strane si devono vestire, così chiuse la rivista, la posò sul bancone assieme al ventaglio e sospirando si avviò di malavoglia verso gli scaffali.
Il bugigattolo a lato del bancone, chiuso da una tenda verde, dove mi infilai con il vestito in mano, era piccolo ma c’era uno specchio, dentro, che copriva tutta una parete e non distorceva per niente e non era macchiato di ruggine come quello di casa mia.
Ed io mi svestii in fretta e restai con le sole mutandine a guardarmi per un po’ e mi trovai diversa.
C’erano cose che nemmanco conoscevo bene del corpo mio, cose che guardavo nelle altre e che sapevo d’avercele io pure ma che, forse proprio per avercele addosso, non contavo.
I seni, ad esempio, che sapevo due perette, s’erano arrotondate per davvero; mi s’era arrotondata anche la pancia, solo un filo, giusto per non sfigurare coi fianchi e con le natiche. E intanto mi torcevo tutta per guardarmi dietro e di profilo e quella tenda verde, così riflessa, come sfondo, dava spicco alle gambe che non erano più due stecche di legno e ginocchioni, ma belle sode e tonde ai punti giusti.
Mi parve di restare così solo un momento ma sentii là fuori quel tizio che diceva:
– Ohè, facciamo presto, ragazzina! Io devo chiudere! E’ tardi. E’ quasi l’una!
Io scostai un poco la tenda, sporsi la testa e dissi:
– Arrivo!… – e vidi che lui stava già armeggiando con la serranda, abbassandola a metà.
Poi sentii scricchiolare la sedia di vimini e lo vidi pure, quell’uomo, nello specchio. S’era seduto di nuovo ma adesso non stava sfogliando la rivista. S’era messo gli occhiali sulla fronte e puntava gli occhietti nella fessura della tenda e io capii che mi stava proprio guardando riflessa in quello specchio. E aveva un’immobilità strana e un’espressione da ebete, con il ventaglio aperto e fermo in una mano.
– Ancora un attimo… – feci io, indossando di furia gonna e camicetta. Poi, nel girarmi per vedermi meglio, scossi un poco la tenda e la fessura s’allargò ancora di più, ma io non l’accostai.
Con quei vestiti mi sembrò di vedere un’altra nello specchio. Una donna. Sì, c’era una donna, in quello specchio. Una donna minuta ma fatta e finita e pure bella, pensai. Bella e con due gambe ben fatte che spuntavano fuori da una piccola corolla di stoffa rossa.
Stetti un poco a fissarmi, stirando le pieghe della camicetta, toccandola per sentirne la stoffa, leggera e trasparente che, fresca e liscia, mi carezzava la pelle come seta, e intanto mi aggiustavo addosso la gonna, me la sentivo stretta nei fianchi e sulle natiche, proprio come piaceva a me, e storcevo il collo per guardarmi anche dietro. Mi piacevo.
Pazienza… – dissi tra me e cominciai lentamente a svestirmi, sbottonando di malavoglia la camicetta e abbassando la lampo della gonna.
Pazienza…miseria maledetta! – ripetei sospirando – e stavo per riprendere i miei stracci posati per terra quando ci ripensai.
Li appallottolai, quegli stracci, li lasciai cadere di nuovo a terra in un mucchio senza forma e lasciai la camicetta sbottonata e la gonna con la lampo aperta. Poi dissi a voce alta:
– Oh, che peccato! Non mi va bene di misura, non mi va proprio bene questa gonna!
Sentii lo scricchiolio dei vimini e vidi nello specchio che quello s’era alzato e non aveva più gli occhiali a mezzaluna. Poi non lo vidi più perché era proprio là vicino, dietro la tenda e ripetei ancora, sospirando:
– Che peccato! E dire che era proprio quella che cercavo…!
Lui era ancora più vicino quando sussurrò:
– Vediamo… cosa… – e lo disse in un soffio mentre scostava ancora un poco la tenda e aveva la voce tutta impastata e il viso bianco e vidi che respirava a bocca larga, come se avesse l’asma, ma io lo sapevo cos’era, e finsi di forzare la lampo della gonna.
– Vede? – dissi – Non riesco a chiuderla. E’ troppo stretta! Ed anche la camicetta mi tira qui e qui. Mi tira dappertutto! – e cominciai ad abbottonarmela, ma lui fece:
– Lascia… che faccio io… – e mi aggiustò a lungo la camicetta dentro la gonna e le sue mani erano fredde sui miei fianchi.
– Forse… – rantolò – sì, forse ne ho un’altra che ti starà un po’ meglio. E si allontanò quasi di corsa ma vidi che non andava dritto agli scaffali.
Ricominciò, invece, ad armeggiare con la manovella della saracinesca borbottando di vigili e di multe e che c’era un regolamento da rispettare e che non poteva tenere aperta la porta fuori orario e altre cose così, quasi senza senso, e intanto girava e girava con una strana furia quella manovella, proprio con furia la girava, e la saracinesca fece un gran fracasso mentre precipitava giù.
Fu allora ch’ io ebbi paura.
L’ebbi per un attimo, quando non vidi più quella lama di sole che strisciava sul pavimento e tutto diventò più bianco e più freddo alla sola luce del neon.
Poi lo guardai avvicinarsi, quell’uomo, e barcollava quasi e sorrideva strano e gli occhi erano spalancati e liquidi come quelli d’un bambino e non ebbi più paura perché sapevo d’istinto ch’ero io la più forte e d’aver vinto.
– Esci pure – mi disse – ché qui ci si vede meglio e si respira.
Io guardai a terra il mucchio dei miei vestiti vecchi, feci una smorfia e uscendo dallo spogliatoio calpestai apposta quegli stracci come fossero serpi.
Poi mi avvicinai a quell’uomo, vicino al bancone, e gli lasciai fingere di aggiustarmi ancora la roba addosso e lui mi s’inginocchiò davanti come per raddrizzarmi l’orlo della gonna, tirandola un poco da un lato, poi lasciò stare e mi fissò dal basso.
Mi fissò a lungo, quell’uomo, e nei suoi occhi c’era una domanda muta, una preghiera che ormai cominciavo a conoscere bene, e anch’io lo fissai senza parlare e forse anche i miei occhi dissero qualcosa.
Così non mi mossi d’un centimetro neppure quando cominciò ad accarezzarmi le gambe e a baciarle e a salire su di esse con le mani e le labbra, farfugliando cose senza senso, come una nenia, finché non vidi più la sua zazzera nera, scomparsa sotto quella gonna rossa.
* * *
Sentivo male dappertutto, dannazione, specie tra le gambe e nella schiena, e quando presi la metro cercai subito un posto per sedermi.
Tutta colpa di quel bancone, pensai, e mi venne proprio da ridere ripensando alla faccia che aveva fatto quell’uomo quando gli dissi il mio nome e quanti anni avevo.
Ricordo che lo vidi sbiancare in viso mentre diceva:
– Ho già scordato il tuo nome e tu non sai il mio. Non stare a dirlo in giro di noi, mi raccomando – e mi guardò fisso e a lungo finché capì che non l’avrei fregato. E quando mi rivestii mi disse solo:
– Ti sta una meraviglia quel rosso in quelle gambe!
Ma io neppure gli risposi perché avevo fitte allo stomaco e forse feci anche una smorfia di dolore perché lui sgranò gli occhi dicendomi:
– Stai bene? Vuoi che t’accompagni alla metro?
A me piaceva vederlo così preoccupato e con quegli occhi sgranati ma non volevo che mi considerasse una bambina, così risposi con un’alzata di spalle e ci scappò pure un mezzo sorriso mentre dissi:
– Niente. Mi passa. E guarda che per i vestiti, i soldi te li porto, cosa credi?
Ricordo che lui mi passò, leggera, una mano sulla guancia mentre diceva:
– Questo è un regalo – Poi mi fissò strano e aggiunse in un soffio: – E’ stato bello.
E vidi un po’ di colore salirli in viso e sembrava proprio un sorriso vero quello che fece mentre tirava su la saracinesca per farmi uscire.
* * *
Nella metro, stando seduta in quel sedile duro con l’involto dei vecchi stracci per cuscino, in mezzo alla gente tutta presa dai giornali, dai libri o dall’affanno, mi sentii veramente sola e mi guardai dentro e credevo di trovare un’altra, una Lia diversa che avesse perso per strada qualcosa di importante, magari qualcosa a cui teneva veramente e che anche la gente, guardandomi, capisse.
E invece no, non succedeva niente. Tra i giornali, le gambe, le cartelle e le borse della spesa che oscillavano tutti assieme nelle curve, non c’erano occhi per me. Le facce erano tutte chiuse e lontane, tramortite dal rombo del vagone e dai fischi delle porte alle fermate.
Ed io non mi sentivo, poi, tanto diversa: sì, forse ero stanca e tramortita come quelle facce, al punto che il cervello non girava bene. Forse per questo i pensieri non avevano un senso e, sballottati e confusi tra la folla, s’accartocciavano da soli con discorsi vecchi e nuovi, un po’ da trivio e un po’ da sacrestia, tutti mischiati assieme, ronzando su cose come verginità, rimorsi e tutto quanto.
Solo quando salirono tre zingari con una fisarmonica asmatica e un violino tutto scartocciato, mi sembrò che mi si facesse un poco più di ordine dentro e che riuscissi di nuovo a pensare come prima, anche se, più che pensare, in quel momento mi volevo solo cullare in quella musica perché ero proprio stanca e perché era una musica triste e allegra insieme e perché suonavano da dio anche se erano lerci e straccioni quasi peggio di quelli della borgata mia.
Cosa strana, ma quella musica mi fece venire in mente, ancora, le parole di quell’uomo quando non ragionava più come un cristiano, quando diventò qualcosa di diverso e le sue parole andavano da sole, senza senso.
Ma un suono l’avevano davvero quelle parole, come se tra una e l’altra ci fosse stato un respiro enorme, assai più grande di quello che faceva quella fisarmonica scassata quando lo zingaro la stringeva tra le braccia.
Si respira davvero così in quei momenti? E che cos’era quel respiro strano?
Sembrava che respirasse non lui ma il mondo intero e che in quel respiro ci fosse proprio tutto e che tutto avesse bisogno di me e tutto mi chiamasse con la forza del mondo e tutto mi adorasse come una madonna. Lo so che forse ero stranita per davvero, ma per un attimo mi sentii importante.
Così pensavo seduta in quel vagone, e intanto che la musica andava e una zingara girava con un bicchiere di carta chiedendo l’elemosina, mi chiesi se anch’io avevo respirato così, in quel momento, oppure se avessi solo gridato come un’oca mentre sentivo male tra le gambe.
Forse avevo fatto insieme le due cose? Chissà! Avevo tanta nebbia nel cervello che, se davvero volevo capirmi fino in fondo, avrei dovuto pensarci a mente fresca, dopo una nottata di sonno e di riposo.
Ricordo anche che dopo un po’ mi guardai riflessa nei finestrini e solo allora non sentii più male, forse perché con quella gonna e quella camicetta quasi di seta, mi vidi proprio carina come non lo ero stata mai.
Solo quando abbassai gli occhi sulle scarpe da tennis e vidi il buco nel ditone, mi sentii di nuovo stanca e depressa e nascosi i piedi sotto il sedile, più in fondo che potevo.
Enzo Maria Lombardo
(Dal romanzo: “Lia di Porta Portese” scaricabile gratuitamente in PDF, e-pub e Kindle al seguente link: http://www.copylefteratura.org/?p=483
Chi è il più forte? Se escludiamo la violenza, manifestazione di obbrobriosa d’inferirorità, dobbiamo accettare che le armi del sesso femminile sono in grado di soggiogare il mondo. L’albero non aveva una sola mela succolenta, ma era e resta carico. Il maschio, se sente ancora pulsare il sangue nelle vene non potrà mai sottrarsi al ricatto che la natura gl’impone. Dominio indiscusso della donna, che i custodi della morale puritana provano a chiudere in una bottiglia di vetro trasparente e fragile e che il sesso maschile frustrato rifiuta nascondendosi dietro l’atto coercitivo.
Grazie, Corrado.
Concordo pienamente con la Tua analisi. Era proprio questo che intendevo con le parole della Lia, circa il “respiro del mondo”!
E.M.L.