Il riverbero di Corrado S. Magro 1


Si guardava nello specchio in attesa che la schiuma da barba ammorbidisse quelle punte ispide che non si stancavano mai di crescere e che a giorni alterni radeva. Il pennello aveva distribuito la massa spumosa sulle guance come vi avesse soffiato sopra un folletto, quasi una meringa morbida sullo zigomo e che altrove sotto il mento restava in sospensione minacciando di staccarsi. Restava accostato al lavandino per evitare di lasciarla deporre sul tappetino, sulle piastrelle o tra le fughe.
Si vedeva buffo ma meno di quando i capelli non erano ancora argentei e stonavano con il bianco panna-montata su guance e gola.
Non aveva mai provato senso di repulsione o di rifiuto verso la propria immagine riflessa. Era contento di essere così come si vedeva e come con gli anni diveniva, mai stato oltremodo narcisista.
Nell’attesa di fare scivolare il rasoio sulla pelle, l’inconscio gli forniva stimoli e argomenti con cui misurarsi e da tempo forse in attesa di una risposta. Ne venivano tanti alla superficie. Inflazionavano. Si accavallavano, costringendolo ad affondarne una gran parte e limitandosi a cogliere con la mestola quelli che rifiutandosi riaffioravano sciabordando sempre più insistentemente.
Quel mattino si sorprese che senza volerlo le sue labbra avevano emesso un GRAZIE appena soffiato.
Ma grazie di cosa? Perché?
Provò a frenare la corsa della mente che gli aveva preso la mano abbandonando dietro di sé gli steccati abituali e ora pronta a superare la prossima siepe prima d’inoltrarsi nelle praterie del pensiero che sfumavano nell’orizzonte e iniziando un dialogo in prima persona con se stesso disse nuovamente: GRAZIE…
A voi che mi avete generato anche se non per mio né per vostro volere esplicito. Un grazie ancora più grande per avermi accolto e permesso di vivere.
Mi avete fatto nascere povero e ricco. Povero e lindo era il mondo materiale che mi circondava, ricco fino all’opulenza era quella devozione con la quale venni allevato tra fratelli e sorelle e sotto il vostro sguardo protettore, pieno di ansie quando imperversava la paura del mostro che divorava e seppelliva ogni cosa sotto le macerie fumanti degli ordigni inviati dal cannone o che piovevano dal cielo.
Riconoscenza ai consanguinei che mi hanno regalato il piacere di vivere anche a costo di sacrifici propri.
GRAZIE per avere permesso di arricchirmi di un’esperienza durante gli anni dell’adolescenza quando ho appreso a detestare l’ipocrisia, i sepolcri imbiancati mimetizzati sotto la cappa dorata, gli ermellini, gli zucchetti viola o rossi, le fasce ai fianchi e l’abito talare. Avete cercato di punire la mia rivolta verso quel mondo che ai vostri occhi appariva sano, perché potente, negandomi di appagare fuori di esso la sete di conoscere, costringendomi al duro lavoro manuale della campagna dove braccia e schiena erano gli unici mezzi, e ritmo e durata non erano determinati dal ciclo solare ma continuavano nelle notti sempre brevi e spesso rigide anche quando le stagioni le offrivano lunghe e invitanti al riposo.
Avete così forgiato, reso corpo e volontà levigati come il granito, resistenti alle scalfitture. Se mi fu impossibile seguire il sentiero sognato, la visione del futuro che mi esortava ad intraprendere un cammino diverso non annegò sotto la tempesta e l’uragano che mi piombarono addosso, ma rimase viva e forte, arroccata su una rupe che non temeva scossoni.
Riconoscenza a chi mi ha impedito di realizzare quel sogno che mi portava in alto nell’immensità della volta azzurra dove volteggiavo e da dove ho potuto osservare quanto il mondo sottostante fosse piccolo. Ricordo ancora le parole di un uomo che contava: “Non essere turbato! Meglio un asino vivo che un asso sotto terra.” Grazie anche per questo.
GRAZIE a te donna, allora giovane ninfa dalla dolce incantevole bellezza, cresciuta come un fiore lussureggiante sotto il sole mediterraneo. Ti ringrazio per avere rifiutato il mio amore, respinto la mia dedizione, distrutto il sogno di una simbiosi tra il mio e il tuo corpo, tra il mio e il tuo essere e che cancellandomi dal tuo futuro, senza dirmi cosa ti aveva turbato mi abbandonasti, non più degno di pulire il suolo su cui posavi i tuoi piedi.
Ti ringrazio perché ho dimostrato a me stesso che anche da questo annientamento sono riuscito a sollevarmi scoprendo risorse che altrimenti avrei forse ignorato di possedere.
Avendo scelto di vivere in un mondo ostile e straniero, non ne ho evitato le conseguenze e mi sono adoperato a ricostruire me stesso, molecola dopo molecola, briciola su briciola.
GRAZIE per avermi reso vittima del dubbio che non mi dava tregua, e che non trovando un perché, una risposta plausibile, non ha evitato di farmi avanzare anche tra la nebbia. Ho appreso così ad accettare e lasciar correre, senza pretendere di spadroneggiare sulla coscienza altrui, evitando di essere nuovamente preso nel vortice, nel magma delle passioni ed esserne distrutto. Senza queste prove sarei rimasto vulnerabile e non avrei mai conosciuto la forza alla quale il mio animo poteva attingere.
GRAZIE alla mia famiglia lontana e a quella che mi è cresciuta attorno. Da esse ho ricevuto e ricevo mille volte quello che ho dato in dedizione, cura ed affetto. I giovani virgulti ormai dal fusto poderoso e capaci di affrontare sfide non comuni sono il diamante inestimabile nello scrigno del cuore e i parenti lontani mi sono stati e mi sono vicini sostenendomi nei momenti meno felici quando la barca minacciava di sparire tra i flutti.
La barba si era ora ammorbidita. Il rasoio poteva accarezzare, scivolare, seguire delicatamente il sentiero tortuoso che dalla carotide arrivava al mento e attorno alle labbra.
La schiuma ammassata sulle lame spariva, spazzata via dal getto di acqua limpida. Il viso ormai libero brillava.
I GRAZIE che aveva pronunciato, assieme alla serenità avevano adagiato sul suo capo un leggero velo di mestizia misto al sentimento che provava verso chi non riusciva ad accettare, a possedere la piena consapevolezza di potere gestire la propria vita, di attivare quegli stimoli che fanno germogliare pensieri e immagini passate e future, da cui sgorgano le fonti, le azioni, che danno forma al proprio domani di cui lui era certo essere il vero protagonista. Immagini ormai concrete, cresciute spesso sull’inconscio del passato che osserviamo, lo sguardo chino meditabondo e che la realtà cosciente e consapevole fa proprie.
Lo considerava un dono che gli strappava un grazie per essere in grado di capire e accettare senza astio e frustrazione il mondo in cui viveva e dal quale non si sentiva vittima, né pagliuzza travolta e trascinata dai torrenti.
A chi doveva quella sensazione, quello stato d’animo che non lo abbandonava quasi mai, che lo sosteneva incessantemente e alla quale faceva appello con fiducia, senza paura di perderlo?
Lo doveva al mondo in cui era vissuto e in cui viveva, al mondo che aveva finalmente accettato con i suoi eventi lieti e meno lieti che gli avevano fatto capire che una delle più grandi ricchezze della vita non è l’esperienza ma l’uso che di essa ne facciamo.
I polpastrelli delle dita spargevano il balsamo profumato per inumidire e nutrire il viso lavato e rinfrescato.
Disse ancora GRAZIE se a un’età quando già tanti amici e coetanei erano scomparsi da anni mentre lui era sempre in grado di assaporare il divenire, accoglierlo e farlo proprio, sentirsi spronato a non rifiutare il mondo che gli evolveva intorno, di godere quello che gli offriva, di potere ammirare la bellezza delle persone e delle cose, gustare il nuovo che le intelligenze creano, continuare a respirare a pieni polmoni, a vivere la vita espressione di una dinamica che sgorga da un principio arcano che ci può rendere felici anche quando inconsciamente ci adoperiamo per non esserlo perché la felicità non possiamo che trovarla in noi stessi.
E pensando al domani quando il suo corpo non sarebbe stato più capace di rinnovarsi e l’energia che lo impregnava non si sarebbe sentita più a proprio agio albergandovi, esalando l’ultimo respiro sperava avere la forza di dire ancora una volta: GRAZIE!
Si osservò allo specchio e si vide canuto, sorridente, contento nell’immagine riflessa.
Premette il pulsante, la luce si oscurò e andò conservando nel cuore quel riverbero che lo avrebbe accompagnato senza affievolirsi o spegnersi.

Corrado S. Magro

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