Recensione film “Il prigioniero coreano” per la regia di Kim Ki-duk
La perversione del potere
Storia individuale in volo nell’universale, il debole intrappolato nella perversione di ogni potere e tradito nella fiducia civile, è anche uno sguardo sulla separazione coreana. Occhio al titolo italiano: prigioniero, né del sud né del nord, dunque di entrambe (l’originale, Geumul, significa retino). Pescatore poverissimo, padre di famiglia al confine estremo della Corea comunista, col motore incastrato nella rete Nam (magistrale Ryoo) finisce in Sud Corea. Il protocollo dei Servizi prevede un duro interrogatorio, ma anche la presunta correttezza dei giusti (l’Occidente della libertà). Diventa però un’esperienza tragica di corruzione, ricatto, fanatismo, induzione al tradimento, spietato opportunismo. Contralto umanista, la solidarietà di un ragazzo. Che cosa aspetta Nam quando torna a casa, restituito al Nord da un patto? Tra i più grandi cineasti di oggi, Kim non sbaglia un piano, una sequenza, un senso. Lo schematismo è brechtiano, ha le ali dei rapaci in picchiata sulle contraddizioni e l’artistica verità della denuncia neorealista di Kaurismaki, dunque, in scala storica, di Chaplin. Da non perdere.
Silvio Danese
Titolo originale: Geumul (The Net)
Nazione: Corea del Sud
Anno: 2016
Genere: Drammatico
Durata: 114′
Regia: Kim Ki-duk
Cast: Ryoo Seung-bum, Lee Won-gun, Kim Young-min, Choi Guy-hwa