Il posacenere di Murano 2


posaceneredi Enzo Maria Lombardo

Quella mattina il sole non era voluto uscire. Aveva fatto un paio di tentativi, qualche raggio era riuscito a passare attraverso le nuvole, senza forza, poi il sole era stato sconfitto dalla nuvolaglia e il cielo s’era fatto sempre più scuro.
Laugelli aveva dovuto accendere la luce sulla scrivania mentre la liberava accuratamente dalle poche carte, dai timbri e dagli oggetti di cancelleria, tutti riposti nel cassetto. Una piazza deserta, quella scrivania. Anche un po’ triste con quella luce verdina della lampada che vi cadeva sopra come un lampione solitario.
Era rimasto fuori solo un fascicolo, con una copertina rossa. Una nota di colore in quel mare di legno. L’aveva messo apposta in un angolo, e quel fascicolo ora copriva alcuni brutti segni sul ripiano che non era mai riuscito a fare scomparire, graffi che storpiavano il lucido legno. Forse questa scrivania potrà essere ancora usata, è come nuova, solo quei brutti segni in un angolo, magari non sarà più una scrivania, servirà per altro, sono arrivati arredi nuovi, finto legno, formica, plastica, metallo. Sarà buona per la Croce Rossa, tutto va alla Croce Rossa, prima o poi, magari andrà a visitare l’Africa prima di passare in un inceneritore.

Il direttore, dottor Magrì, passando nel corridoio s’era affacciato alla porta. Non c’è bisogno di un vero colloquio tra loro. Laugelli china il capo e farfuglia un saluto, poi dà una lunga occhiata alla scrivania. L’occhiata è mesta, unita a un sorriso forzato. Mette le mani sul ripiano, lo accarezza. C’è anche una punta di soddisfazione in quel sorriso, riflette l’ordine in cui ha vissuto, l’ordine che lascia: la scrivania lucida, la pinzatrice nel cassetto, le biro legate con l’elastico. Poi tira su le spalle e allarga le braccia a palme aperte. La pratica Betozzi, dice, e indica il fascicolo, l’unica pratica ancora da ultimare, manca poco, non farà fatica chi si siederà al mio posto, se qualcuno si siederà mai al mio posto.
Non dice tutto questo, Laugelli, dice solo: la pratica Betozzi. Ne hanno già parlato e il dottor Magrì capirà. Forse in questa sedia non siederà nessuno, le procedure ora sono diverse, fa tutto il computer nascosto nelle viscere del Ministero. La pratica Betozzi è un’eccezione, è una pratica vecchia, fatta a mano, manca solo un documento, quando questo arriverà andrà in archivio, adesso serve a coprire quei brutti segni sul ripiano della scrivania, poi anche questa sua piccola funzione finirà, andrà in pensione anche la pratica Betozzi, come lui.

Il dottor Magrì fa segno di sì con la testa. Ha capito. Sorride mentre dice: Sa Laugelli che io l’invidio? Ma sì, da domani per lei vita nuova! Tempo libero, viaggi, hobby e addio ufficio, carte, bolli, timbri, responsabilità…
Laugelli annuisce ripetutamente ma l’espressione non è mutata, non ha niente da dire, oppure le parole sono tante ma non vengono, hanno intasato il cervello, potrebbe usarne qualcuna, una parola scontata, una di quelle che tanti hanno detto in queste stesse occasioni, una qualsiasi, tanto da riempire quel silenzio imbarazzante.
Ma il dottor Magrì capisce anche il silenzio. Sa interpretarlo. E’ certo un silenzio d’occasione, forse anch’esso scontato, e, volendo, possono dire tanto anche i silenzi se li accompagna la giusta espressione.
“Ci vediamo alle dodici e trenta, Laugelli, in biblioteca, per il brindisi di commiato che lei ha voluto offrire ai colleghi. Ci saremo tutti, sia puntuale e mi raccomando, Laugelli… sursum corda!”. La voce del dottor Magrì già sfuma mentre si avvia nel corridoio. Il suo latino è riflesso dalle pareti mentre è già distante. Si era fermato anche troppo.

Laugelli sarà puntuale, alle dodici e trenta. Magari andrà un po’ prima in biblioteca, vedrà se tutto è a posto, se i tavoli sono allineati, se le tovaglie di carta, i piatti e bicchieri di carta sono in ordine. Lui ha portato anche lo spumante, le gassose e i pasticcini, tocca a lui, è usanza; quei pasticcini basteranno per tutti?
Qualcuno avrà preparato un discorso. Magari ne avrà rimaneggiato uno precedente. Basta cambiare qualcosa, magari solo il nome. Lo leggerà il dottor Magrì, quel discorso; il dottor Magrì è ormai pratico, riesce persino a dare l’impressione che non sia una cosa ordinaria, legge con lentezza, con espressione grave, l’amichevole scivola nell’ufficiale, forse lo fa apposta perchè sembri un verbale importante, ci mancherà il bollo ma la firma c’è, a volte Magrì aggiunge anche un pizzico di suo, togliendo per un momento gli occhi dalla carta, tenta una battuta, un lazzo veloce prima di ricomporsi nella lettura.
Caro collega, encomiabile dedizione al lavoro, onestà adamantina. Tutte parole usate e abusate, ma ci stanno bene, ci vogliono, sembrano nate apposta per restare attaccate tra loro, da sole non fanno figura. Non puoi dire che vorresti qualcosa di diverso, cosa poi? Oddio, basterebbe dire ci dispiace che vai via. Ma nessuno dice semplicemente ci dispiace.
Diventerà un rotolo, quel foglio, nelle mani del dottor Magrì, qualcuno avrà persino preparato un nastrino rosso per fermarlo, magari basterà un elastico se il nastro non si trova. Poi con quel rotolo il dottor Magrì indicherà un grosso pacco poggiato a terra.
E’ una mossa scontata, la fa sempre nei discorsi di commiato. La farà anche oggi, alle dodici e trenta. Ergerà il busto, il dottor Magrì, e in quei momenti sembrerà più alto, chissà se di nascosto si solleva sulle punte. Il suo viso sarà serio, la posa statuaria, il rotolo diventerà una pergamena nella sua mano. Lo terrà in alto, quel rotolo, le dita tese, e la pergamena oscillerà minacciosa come un editto, una dichiarazione di guerra, una sentenza di morte. Stonerà un poco il doppiopetto.

Cosa ci sarà in quel pacco? Laugelli farà finta di non saperlo anche se la carta non nasconde la forma. Lui farà solo finta di ignorare, come nei compleanni, come a Natale. Per me?, non dovevate, ma che sarà mai?, no, no, lasciatemi la sorpresa.

* * *

Il dottor Magrì è già scomparso nel corridoio, la sua voce è stata interamente assorbita dalle pareti ma è rimasta una scia di profumo, il suo, di muschio, di tabacco; è qualcosa di forte che entra nella stanza, quasi una presenza incorporea, un’immagine d’aria, importante, simbolica.
Laugelli sa che anche al dottor Magrì, un giorno, qualcuno leggerà un verbale pieno di termini abusati, anche se diversi. Quel giorno è ancora lontano e si dirà molto di più per il dottor Magrì, si parlerà di colonna portante, di pilastro, di ottimo nocchiero, si dirà della tolda della nave che avrà guidato, lui che il mare l’ha visto solo dalla sdraio; è vero anche questa sarà un’immagine scontata, ma il dottor Magrì l’accetterà chinando il capo, come oggi farà Laugelli, e socchiuderà gli occhi, proprio come farà Laugelli alle dodici e trenta, ma il dottor Magrì dovrà stare più attento perché quel gesto non sia interpretato come un segno di debolezza, lui è un nocchiero infaticabile e attento, questo è solo un momento di commozione, può succedere a chiunque, anche ai capi, ma dovrà riaprirli subito, gli occhi, sorridere, ergere il busto, gli occhi puntati lontano, su un oceano che sta subito oltre le finestre della biblioteca, fino all’ultimo si dovrà sentire l’odore di muschio e di tabacco, sembrerà confuso con il salino spruzzato dalle parole che richiamano invisibili onde, oltre la tolda.

Per Salvo Laugelli, invece, tutto sarà più semplice, il rotolo più corto, i termini assai meno roboanti. L’unica cosa grande e grossa sarà il pacco.
Per il dottor Magrì, a suo tempo, forse ci sarà un pacco piccolo. Laugelli sa che la grandezza dei pacchi è inversamente proporzionale all’importanza. Un pacchetto minuscolo, per il dottor Magrì. Una medaglia d’oro con dedica, un orologio d’oro, di marca prestigiosa, magari tutti e due. Cose che possono stare in pacchetti piccoli con nastrini discreti, argentati, carta azzurrina, confezioni impreziosite da nomi di orefici e argentieri.
Il regalo di Laugelli, invece, è un pacco grosso poggiato a terra, vicino a una parete, è bastata un’occhiata per capire cos’era. Fino alle dodici e trenta quel pacco resterà acquattato come un grosso animale sonnolento, infiocchettato con un nastro rosso, pacchiano e volgare, la carta verde è unita con lo scotch, un foglio solo non bastava.

Mentre pensa a queste cose Laugelli libera l’armadio.
L’armadio è piccolo, anche quello è di legno, come la scrivania. L’archivio ha già inghiottito ieri tutti i faldoni con le pratiche, i ripiani sono già sgombri, puliti, basterà aprire l’altra anta, prendere il soprabito e l’armadio sarà vuoto, non è rimasta neppure una graffetta di metallo, un elastico, una puntina, nei ripiani. La pulizia è stata esasperata, quasi maniacale, non deve restare niente nel sarcofago di legno, nessuna testimonianza per la Croce Rossa o il rigattiere, la stessa pulizia nei cassetti della scrivania e in quello del tavolo di sgombero.
Ha cercato anche a terra, Laugelli, negli angoli, riempiendosi la mano di graffette arrugginite ed elastici con la gomma vecchia, appiccicosa, piccoli simulacri di pratiche morte.

* * *

Le sue cose sono già tutte in un cartone, le porterà via quasi di nascosto, passando per la scala di sicurezza, quando non ci sarà nessuno nel corridoio; e anche i passi saranno leggeri, sarà confortato dalle porte chiuse, dai discorsi che trapelano attutiti dalle stanze, dall’assenza di curiosità o interesse. Passerà con il cartone, nell’indifferenza di muri e scale che ha usato di rado: sarà un atto diverso dai soliti, definito da pareti non familiari, chiuso, infine, dallo scatto del bagagliaio della macchina, giù nel parcheggio.
Non è pesante il cartone, non sono tante le sue cose, una cornicetta di tartaruga con dentro tre foto ritagliate, una cartellina di finta pelle con la pubblicità di una banca, una calcolatrice tascabile, un calendario perpetuo, di legno, con bussola e termometro. La cosa più voluminosa è un fascicolo con la storia del suo lavoro: la lettera di assunzione, il giuramento, i due o tre decreti di avanzamento, pochi perché corta è stata la carriera, da avventizio a quinto, da quinto a sesto, settimo non c’è riuscito per un pelo; conteggi su un tabulato, buste paga vecchie, vecchissime e recenti; ancora conteggi, stavolta fatti a mano, se basterà la liquidazione, se basterà la pensione, se potrà riscattare il mutuo e in cima, proprio in cima, un foglio, una nota ministeriale protocollata come tutte le altre che gli sono passate per le mani in quegli anni, poche righe per ricordargli di andar via.
Giorno e ora. Un grazie ci sarebbe stato bene, proprio in fondo alla lettera. Cosa costava un grazie? Non costava niente. Ecco, se proprio non sapevano cosa dire d’altro potevano dire “grazie” e basta. Sei lettere. Forse ci penserà il dottor Magrì a compensare l’omissione ministeriale, ma la voce del dottor Magrì non sarà protocollata, non resterà traccia di quella voce, anche il ricordo svanirà assieme all’odore del muschio e del tabacco.

Anche Laugelli dovrà dire qualcosa alle dodici e mezza. Si usa. Ci sono ancora quasi tre ore per pensarci. Magari metterà giù i pensieri su un foglio: una penna è rimasta sulla scrivania, l’ultimo lavoro di penna, se lo vorrà fare, sarà questo. Non potrà essere una cosa lunga, il dottor Magrì ha sempre tanti impegni. Agli altri magari farebbe piacere passare un po’ di tempo in biblioteca, in fondo sono loro che hanno pagato il regalo, e ci sono le paste, a quell’ora si ha appetito, si vorrebbe mangiare qualcosa. Cosa dirà Laugelli? “Illustre direttore, cari colleghi, è stato bello trascorrere con voi quarant’anni di vita tra queste mura, questi vetri, questi legni…” Banale, sembrerà un’omelia. Potrebbe scapparci un riso soffocato, nascosto a malapena tra colpi di tosse e raschiamenti di gola. C’è sempre qualcuno che non apprezza. Quel qualcuno potrebbe anche sogghignare o addirittura non contenersi e sghignazzare.
Ripensandoci, Laugelli dirà poco, quasi niente, si fingerà commosso, un groppo in gola, può capitare, dirà solo grazie. Sei lettere, quelle che lui si aspettava, e farà capire che in questo grazie c’è tutto, anche quello che non pensa.

* * *

Ora è l’ora giusta per andare giù e caricare in macchina il cartone con le sue poche cose.
Il commesso non è al suo posto dietro al tavolino del corridoio, meno male, è un impiccione. Direbbe mi dia il cartone, Ragioniere, glielo porto io Ragioniere, gli darebbe due volte un titolo che Laugelli non ha, solo per poter sbirciare nella scatola. Magari adesso è giù a prendere il caffè, questa è la sua ora. Gli altri sono nelle stanze, aprendo la porta si sente un chiacchiericcio sommesso, acute voci femminili superano il legno delle porte, voci maschili esplodono nei monosillabi accentati.
Laugelli deve fare solo una quindicina di metri, poi un angolo. Altri dieci metri e poi le scale. Laugelli li fa tutti, quei metri e sono tutti deserti, come lui voleva.
Poi la porta che dà nella scala di servizio. Anche questa parte del corridoio è deserta, pochi usano le scale di servizio, senza ascensore.

Poco prima della porta c’è un piccolo tavolo, un mobile che nessuno ha voluto, neppure la Croce Rossa, con sopra un posacenere.
Qui è vietato fumare, a chi mai potrà servire quel posacenere nel corridoio, si chiede Laugelli.
Oddio, quel pezzo di vetro con i suoi ghirigori colorati e translucidi farebbe la sua figura in un salotto, in uno studio. Qui è solo una macchia di colore, appiattita dai neon, una nota stonata in mezzo al bianco e al grigio delle pareti.
Laugelli non fuma, non ha mai fumato, ma i colori cangianti di quel pezzo di vetro lo hanno sempre affascinato. Pensa che su un certo mobile del suo tinello ci starebbe bene, magari con sotto un bel centrino ricamato. Potrebbe essere un ricordo, in fondo non serve a niente qui, non fa la sua funzione, neppure come fermacarte.
Certo domani qualcuno si chiederà come mai non c’è più quel posacenere. Sì, qualcuno se lo chiederà. Oddio, passa tanta gente nel corridoio, può essere stato chiunque. Qualcuno penserà, o forse lo dirà, sì è vero, passa tanta gente ma guarda caso manca proprio da ieri, secondo me l’ha preso Laugelli prima d’andar via, l’ha messo tra le cose sue, per sfregio oppure perché è un povero cristo che in casa non ha niente.
Sono pensieri veloci mentre oltrepassa la porta, la scatola gli sembra più pesante ma lui il posacenere non l’ha toccato, quel peso è solo una sua impressione, forse il peso di un pensiero molesto, e con quel peso in più scende le scale, due rampe, un pianerottolo, porte antincendio, altre rampe, altri pianerottoli, la scala è lunga ma lui ora è alla fine, è già nel parcheggio.

La sua macchina non si vede subito, si vedono bene quelle grosse e panciute che stanno nelle prime file, in attesa del padrone negli spazi riservati, tra le righe gialle. Gli spazi tra le righe gialle sono ampi, c’è un numero disegnato a terra. Anche quella del dottor Magrì è fra le righe gialle ma non è ancora grossa e panciuta. Non lo è ancora ma lo diventerà quando il dottor Magrì salirà qualche altro gradino in carriera e sarà commendatore. Tanto, lo spazio fra le righe lo consente. E anche il tempo glielo consente e il suo odore di muschio e di tabacco.

La macchina di Laugelli è anonima, fa quasi fatica a trovarla. E’ nascosta fra le altre, sono tante le macchine grigio-argento, aiuta a trovarla il pupazzetto sorridente che gli ha regalato la figlia per Natale, attaccato allo specchietto retrovisore. A terra le righe sono blu, non gialle, spazi più piccoli, nessun numero.
Qualcuno, lasciando la macchina vicino alla sua, ha debordato. Da domani quel qualcuno potrà anche mettersi sulla riga mediana e occupare anche il suo posto, servirà a nascondere il vuoto.
Laugelli sa che quel regalo che sta acquattato sul pavimento della biblioteca è una grossa valigia. Avrà il suo daffare ad infilarla in macchina.
Una valigia. Un regalo classico per chi avrà tempo libero da dedicare a viaggi ed escursioni. Per lui è un regalo quasi inutile. Glielo dicono i conti fatti a mano che stanno in cima alla scatola.

Ma è ancora presto, Laugelli non ha niente da fare, ormai la stanza è a posto, nessuno lo cercherà fino alle dodici e trenta. Può restare ancora qualche minuto seduto in macchina.
Meccanicamente inserisce la chiave nel cruscotto. Si sta bene in macchina, in un parcheggio deserto. Anche la luce è diversa, sembra che il sole possa uscire da un momento all’altro da quelle nuvole nere.
Alzando gli occhi al terzo piano riesce ad individuare, attraverso il parabrezza, la finestra della sua stanza, ormai spoglia ed estranea. Vede filtrare ancora quella luce verde e triste riflessa dalla scrivania. Lassù dovrebbe aspettare, da solo, fino alle dodici e trenta.

Nell’attesa Laugelli pensa a quello che probabilmente dirà il dottor Magrì alle dodici e trenta passate. Risente parole già sentite, sembrano rimbombare nell’abitacolo della macchina, “fedeltà”, “dedizione al lavoro”, “onestà adamantina”… Sa che quando il dottor Magrì parlerà in biblioteca dovrebbe ad un certo punto interromperlo. Non l’ha mai fatto ma oggi lo dovrebbe fare. Dovrebbe dire, aspetti, aspetti, dottor Magrì, l’onestà adamantina è meglio lasciarla stare. Onestà adamantina? Significa qualcosa o sono solo due parole trite e ritrite? Sa, dottor Magrì, quel posacenere? Quel portacenere di vetro di Murano, se poi è di Murano, sì, quello vicino alla scala di sicurezza, quello che non serve a nessuno dove è messo, tanto in tutto il piano c’è il divieto di fumare? Non sa di che posacenere parlo? Certo. E’ perchè lei non fuma. Neppure io fumo, mai fumato. Beh, dottor Magrì, laggiù c’è un posacenere di vetro e io lo volevo prendere, sa, per il mio salotto. Rubare, dice? Sì, sì, lo volevo proprio rubare. Ma poi non l’ho preso. E’ ancora là quel posacenere, può controllare. Però è come se l’avessi preso. Proprio uguale. Perchè mi è rimasta la voglia di prenderlo, domani lo farei, fortuna che oggi per me è l’ultimo giorno.
Lo dia a qualcuno, dottor Magrì, magari a qualcuno che fuma, ci starà bene su una scrivania, anche come fermacarte. Laggiù, dove è messo, un giorno o l’altro potrà anche sparire. Non ce l’hanno tutti quella roba là, quell’onestà adamantina di cui parla.

Laugelli vede delle striature liquide sul parabrezza, forse comincia a piovere, è da stamattina che minaccia. Chiude gli occhi e quelle striature scompaiono per un momento ma se ne formano subito di nuove.
Non sta piovendo, il parabrezza è asciutto.
La mano è sulla chiave, gira meccanicamente, di volontà propria.
E dato che c’è, dottor Magrì, quel regalo dei colleghi, quella valigia, la dia a chi può viaggiare, magari ad uno con una macchina grossa e panciuta. Gli dica che è un mio regalo. Io vado in un purgatorio dove si viaggia male.
Il motore tossisce, poi l’auto si avvia attraversando il parcheggio.
Porto via solo la mia storia, dottor Magrì, dice Laugelli rivolto al pupazzetto che oscilla sotto lo specchietto retrovisore. Porto via il mio purgatorio passato, chiuso in una scatola di cartone, con dei conti in cima. Lo porto via per unirlo a quello che mi aspetta domani, un purgatorio calcolato fino al centesimo e scritto, nero su bianco su qualche foglio di carta.
Per quelli come me, caro direttore, non sono poi tanto diversi i purgatori di ieri da quelli di domani. La maggior parte sono fatti di piccoli numeri incolonnati, di somme. Solo questo porto via, dottor Magrì, e non occorre una valigia grossa, basta e avanza la mia scatola di cartone.
Però non posso portar via anche l’ “onestà adamantina”: quella, se davvero c’era, dentro di me, da qualche parte, io oggi l’ho perduta, davanti a quel posacenere.

Enzo Maria Lombardo

 

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2 commenti su “Il posacenere di Murano

  • Serenella Menichetti

    Laugelli, personaggio veramente dotato, di “onestà adamantina” complimento che lui, peraltro, non vorrebbe sentirsi fare, nel discorso, confezionato in serie, dal suo direttore, imputandolo al fatto di non meritarlo, per aver sentito per un attimo, la pulsione di appropriarsi di un oggetto altrui. Mentre in realtà, il suo rifiuto, dipende dal contesto in cui, quel termine per decenni è stato abusato. Perché essendo stato propinato, da decenni, a cani e porci, è venuto a perdere la sua valenza positiva., assumendone una qualunquista. Come del resto, ne è permeato tutto il cerimoniale di fine carriera. Ed è proprio per questo, che lui riesce a compiere un atto veramente grande e pieno di coraggio, quando decide di rinunciare alla festa del pensionamento: rito che giudica, interamente pregno di falsità.
    Bravo Laugelli, per aver operato una scelta, non proprio comune.
    E, complimenti all’autore che attraverso i suoi personaggi, riesce a trasportarci in un mondo, dove un’ atmosfera, intrisa di valori, come l’onestà e la dignità umana, ci consente di ben respirare.