Claustrofobico, nel suo svolgersi nella stanza di un seminterrato isolato. Una scabra e desolata, se non squallida, ambientazione. E Assurdo. Stringente. Un assurdo stringente. Pinteresque. Il Calapranzi (titolo originale The Dumb Waiter), commedia in atto unico, di Harold Pinter, vincitore del Nobel per la Letteratura 2005 (“Nelle sue commedie scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione”, la motivazione dell’Accademia di Svezia), è stato composto nel 1957 e per la prima volta rappresentato nel 1960 allo Hampstead Theater Club di Hampstead. Il Calapranzi, con Alberto Onofrietti e Fabrizio Martorelli, è tornato in scena a Milano, precisamente allo Spazio Tertulliano (via Tertulliano 68), ed in replica sino al 24 gennaio.
Nella stanza “sommersa” Ben e Gus, sicari, aspettano che venga loro comunicato il nominativo della prossima vittima. Un’attesa il cui clima finisce per mutare in un incombente e sottile senso di minaccia perché “qualcosa di innominabile, di incomprensibile”, si annuncia. Smarrimento e tensione, sbilanciamento e conflitto. E domande senza risposta nel dialogo illogico che si sviluppa fra i due in attesa.
Dalle note di regia (Antonio Mingarelli): “Chi vincerà la grande battaglia dei tempi moderni? Chi rimarrà alla fine di tutto? Chi potrà sopravvivere al Sistema dominante, tra apocalittici ed integrati, tra omologati e ribelli? In un universo di orwelliana, pianificata schizofrenia è ancora possibile esercitare la propria libertà intellettuale, il proprio diritto all’immaginazione e quindi all’affermazione individuale? È un mondo claustrofobico, asfittico quello in cui Pinter inserisce l’essere umano, l’individuo/cavia, è una stanza senza finestre, priva di sentimenti e di etica e l’ospite che l’abita un gangster senza missione, cui è negato un senso ultimo. Quando l’assurdo incombe, sotto forma di ordini impossibili, di direttive paradossali, l’individuo moderno si trova a combattere, come i soldati di kubrickiana memoria, una battaglia senza nemico, una guerra senza sfondi possibili. Difficile trovare, nella drammaturgia di oggi (a fronte di tante, sterili operazioni avanguardistiche che vorrebbero fare della critica di sistema) un autore più implacabilmente politico, più lucidamente “impegnato” di Harold Pinter e un testo più potente del suo Calapranzi”.
Un’analisi perfetta. L’aspetto “politico” non è affatto secondario, bensì s’intreccia con il disagio esistenziale e con quel dominio dell’assurdo che pare travolgere ogni nostro quotidiano.
Alberto Figliolia
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