I notturni di MariaTeresa Sembianti


  1. Il destino

C’è chi non l’incontra mai il destino, e c’è chi lo vede andarsene un attimo dopo. Ma c’è anche chi lo cerca, come un cercatore di gioia. E Mariateresa Sembianti è una di queste persone. Ha tutto un mondo di gridi e sussurri, ma anche di “risate di gioia”, condite di quadri e scenari di città di provincia che vuole raccontare agli altri, che magari non sempre lacapiscono,  e dicono che è roba che si è inventata , roba da notturni , senza stelle né luna , da luce persa nella nebbia . E pure quei suoni , quei “ canti di coristi a corto di fiato”, quei  paesaggi, quelle voci , quelle “aste dei birocci lasciate andare, (che) puntavano verso l’alto come baionette allineate tutte attorno al perimetro circolare” , quell’”intrecciatore di vimini”, “quei destini che scivolavano all’interno dell’osteria come ombre che cercano un luogo sicuro oltre il buio” , sono esistiti, come “La Bice che si muoveva fra i tavoli e le sedie malandati con l’andatura di un donna grassoccia”  e tuttavia pieno di fascino ,di seduzione e di…promesse (“un albero della cuccagna pieno di promesse”)  . E così grazie a qualche bicchiere di troppo e un po’ di immaginazione , anche Bice andava incontro al suo destino di maliarda , “col suo straccio umido e la sua ondeggiante carne bianca”. Ma “trattava con familiarità solo quelli che erano da compiangere, così gli scendevano nell’anima le angosce degli altri e con il suo strano istinto riusciva a non farli sentire sconfitti…”

Nei racconti della scrittrice imolese c’è un po’ di tutto e di nulla, quello di voler evadere ,raggiungere un luogo, un piccolo eden che ciascuno si forma a suo modo, un “altrove”, una città ideale ( vds. “La mappa di un volo” ) , racconto che sta a metà tra Guareschi e Kafka, oppure un mezzodì di fiamme verdi che sarebbe passato tra gli alberi del patio, come bufera, o il crepitio degli ultimi fuochi , delle ultime braci del tramonto , tra l’erba e gli insetti ostinati che cercano salvezza nel caos infernale, “in attesa di un evento irrazionale e scatenante che neppure Iddio avrebbe potuto fermare “. E  questosa un po’ di scrittori sudamericani , ma anche del messicano  Octavio Paz , prigioniero fra i muri bianchi  di sudore e calce  innalzati dalla memoria.  E poi c’è un pizzico di Nietzsche , al tempo in cui predicava la vitalistica immobilità dell’eterno ritorno, ed era ancora lontano dall’abbracciareun cavallo nelle vie di Torino!. Povero Friederich , come piangeva , a calde lacrime , per quel povero cavallo che veniva crudelmente frustato. Altro che Superuomo, lo portarono di filato al manicomio, dove non riconobbe neppure la madre , la sorella e il grande amore della sua vita, la bellissima crudele russa Lou Salomè.

  1. Il tempo andante

Quasi tutti i racconti della narratrice emiliana hanno il tempo andante del paradiso, perché ,in fondo,  non sono che un eterno ritorno alla natura, ai famosi fili d’erba di memoria whitmaniana. Ma lungo il percorso, ( come nella vita) scopri che “quei sentieri non vanno da nessuna parte, sono solo buchi e pietra e quando ne finisce uno ne inizia subito un altro…/sono percorsi subdoli e minacciosi, una specie di trappole” , allora cambia il motivo musicale , con ondulazioni e crepe e,  talora,  finisce in una sorta di requiem o un tango infernale di corpi intrecciati nel vuoto, di un cielo che ci schiaccia.E tu rimani “membro onorario dei diseredati della terra” .Mariateresa ,donna  volitiva, dinamica, molto attiva , elegante, ancora bellissima , s’accende come un seme, mentre guarda gli universi che si sgranano ai suoi piedi , un mondo che cade in rovina , che va in liquidazione. Si rifugia in sé , nella sua amata letteratura , nella musica della parole , dove innalza i suoi muri della memoria dell’infanzia e va a cercare Padre Zvanì ( mi ricorda tanto il Giovannino Pascoli che dialoga con la Tessitrice, o con la madre amatissima) che sta partendo per Roma ( “Se vai a Roma, perdi la fede, gli aveva detto il vescovo. La fede in Dio? No, la fede nell’umanità)Padre, padre, non parta…la vogliono al telefono”, gli dice la piccola Mariateresa ,tutta ansante e trafelata, calpestando quei suoi amati ciuffi d’erba  che furono quelli che me la fecero incontrare, (sempre attraverso gli scritti)  molti anni fa. Ed ecco che ora , casualmente , la ritrovo; torna a me  con rinnovato stupore, nostalgia, e semplicità, in un’acrobazia  tra sogno e realtà, piena di verve, di ironia, e di sete di vita, di conoscenza. Se ne va in giro per il mondo con le sue belle gambe di donna, va per torri, piazze, colonne, ponti e strade, fiumi, e cinture di paesaggi affogati , con il suo tempo andante, ma anche con la sua “saudade”:  “Sono cose che ogni tanto pescano negli angoli assopiti della nostalgia e poi trasmettono emozioni estranee al loro aspetto” . Se ne va con i suoi capelli disciolti sulle terrazze dell’alba , con quel nonsoché di misterioso , drammatico , o grottesco che c’è in ogni sua storia, piccola o grande che sia.

  1. La storia come espiazione

Il passato è perpetuo , e rientra in te, con tutti i sotterranei e le gallerie della storia , la morte e le sue uscite , i suoi alberi, le sue persiane chiuse, le sue ombre apocalittiche,  in attesa dell’”Ultima piena” , che sparge nodi scorsoi di angoscia e terrore tanto da fare impiccare il  mezzadro alla trave centrale del cascinale, e poi il polverone, il grido, la caduta, l’odio cieco contro il mondo e contro se stessi , i tempi dell’ingiustizia , anch’essi perpetui, che ci fanno  soffrire ,che fanno  soffrire tutte le cose, e le gettano  nella bufera , le une contro l’altre, o domano le ribelli , le Antigoni contadine come la “Capinera” ( “…vide davanti a sé solo stivali e scarponi impolverati  e le sue trecce fra cumuli di polvere . Il suo capo era stato ridotto ad un coccio opaco, come quei cocci che ogni tanto trovava scavando sulla spiaggia”) , finché – alla fine – ci troviamo soli  con noi stessi , smarriti, senza bussola, senza mappe, disperati , ma con una volontà sorda di proseguire il cammino , un voler andare “oltre” , desiderare di essere sempre qualcosa di più di quel che in realtà siamo. Ed è questo forse il desiderio inconscio di rientrare nell’Eden perduto , il tempo della cacciata, della superbia, il tempo della condanna , e tutta la storia diventa espiazione , una punizione, un perenne sacrificio. Che si perpetua. Così Mariateresa se ne va spesso in fuga con la memoria, quando rimette a posto le sue cose, va a rovistare nei cassetti e ritrova le vecchie immagini in bianco e nero, e quei volti contadini si animano come maschere di cera istoriate dal vento , bruciate dal sole , e riode le loro voci dialettali , fruste di vetro , o canti  mezzo spiritual e mezzo balera , e tutti quei personaggi della sua infanzia , scolpiti  nella allegria del naufragio e della miseria ( “La pietà è un dovere dell’essere umano e perciò scende su tutti”) , tra il sole,  la sofferenza e le sterpaglie  e i resti di una civiltà contadina ormai scomparsa , con le ali candide del pensiero che non possono posarsi che su di  esse, dove sono le sue radici , dove si muovono ancora nuovi fili d’erba (“… dal viso di lei riusciva ancor ad uscire il sorriso “) in luogo di quelli svaniti, tra lo stupore il dolore  delle passioni scalpitanti  dell’amore, anche se restano solo le ossa e quattro feticci preziosi. E allora come la sua conterranea Gualtieri ,o come un’antica Rosella Ohara, alza la voce e dice: “Giuro che io salverò la delicatezza mia,la delicatezza del poco e del niente, il colore sfumato, l’ombra piccola, l’impercettibile che viene alla luce, il seme dentro il seme, il niente dentro quel seme. Perché da quel niente nasce ogni frutto. Da quel niente tutto viene”. Quattro racconti , quattro storie : un notturno, che “avvolge un vagabondo che non sa dove andare a nascandonere il suo corpo” , una temuta apocalittica inondazione del Po mai avvenuta, un mitico passato trasognato che vede protagonista un’azdora la reggitrice dei destini della casa contadina  , una fuga, o, meglio la ricerca di un riscatto e di una dignità morale e umana che risana l’aria mefitica su rovine incenerite dalla guerra civile.  Quattro discese nell’interregno ,dove Mariateresa scioglie il suo passato e va a cercare ancora i suoi fili d’erba , guarigioni dell’ignoranza , in una luce frustrata che si fa strada ad annunciare che la vita è più forte della storia .In fondo ogni racconto è il racconto di un ritorno, e cioè di una perdita e di una salvezza.

Roma, 28 agosto 2017
Augusto Benemeglio

 

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