Verso il paradiso di Hanya Yanagihara è una di quelle opere che non si limitano a essere lette: si attraversano, si affrontano, si interiorizzano. È un romanzo vasto, ambizioso, stratificato, che intreccia la storia personale con quella collettiva, specchiando in tre epoche diverse – e immaginate – le fragilità e le aspirazioni dell’animo umano. Leggerlo è come percorrere un sentiero che cambia forma sotto i piedi: a ogni passo, ci si confronta con un nuovo mondo, ma soprattutto con una nuova idea di cosa significhi amare, sopravvivere, appartenere.
La prima parte è ambientata in un 1893 alternativo, in un luogo chiamato “Stato Libero”, una versione idealizzata dell’America, fondata su valori di uguaglianza e tolleranza. In questa società utopica – dove i matrimoni omosessuali sono legalmente riconosciuti – conosciamo David Bingham, un giovane di buona famiglia intrappolato tra l’obbligo e il desiderio. Deve scegliere tra un matrimonio conveniente, sicuro, conforme alle aspettative della sua classe, e un amore vero, autentico, con un uomo di origini umili. In questa scelta, apparentemente semplice, si annida un intero universo di contraddizioni. Mi sono sentita toccata dalla lotta silenziosa di David, dal suo tentennare, dal modo in cui Yanagihara esplora i suoi pensieri più intimi con una delicatezza che sa di confessione. Il paradiso, in questa prima storia, sembra prendere la forma della libertà affettiva, ma una libertà che – come spesso accade – si scontra con il peso della tradizione e del privilegio.
Il secondo scenario ci proietta in un 1993 più simile al nostro, durante la crisi dell’AIDS, è una sezione più cruda, più vicina, più dolorosa. Qui troviamo un altro David, un giovane hawaiano dal passato tormentato, che convive con Charles, un uomo più grande, più stabile, più protettivo. Il “paradiso”, stavolta, è rappresentato dalla possibilità di una tregua, di una casa, di un amore che riesca a contenere il dolore. Ma la malattia grava come una condanna incombente, minando ogni illusione di pace. Yanagihara ha la capacità di rendere tangibile la paura, la perdita, ma anche la tenerezza, la bellezza minuta di quei legami che resistono anche quando il corpo cede. È qui che emerge in modo lampante la sua straordinaria sensibilità narrativa: sa raccontare la sofferenza senza indulgere nel melodramma, e anzi, ci mostra quanto possa essere struggente l’umana aspirazione alla normalità.
Infine, veniamo trasportati nel futuro, nel 2093, in una società distopica segnata da pandemie ricorrenti, disastri ambientali e un controllo autoritario che si traveste da protezione. La protagonista è Charlie, una donna che vive in una realtà iper-regolamentata, dove ogni gesto è monitorato, ogni libertà soppressa in nome della sicurezza. Questa parte è claustrofobica, inquietante, ma anche incredibilmente potente. Charlie è fragile, segnata da traumi e isolata, eppure la sua ricerca di un “paradiso” – che ora non è più amore, né libertà, ma semplicemente autonomia, dignità, voce – si fa universale. Ho avvertito in questa parte una disperazione che non spegne la speranza, ma la tiene nascosta sotto strati di paura. Yanagihara immagina un mondo in cui ciò che ci aveva promesso salvezza – la scienza, la medicina, il progresso – si è trasformato in strumento di oppressione, e ci invita a chiederci quanto siamo disposti a cedere in nome della sicurezza.
“Verso il paradiso” è un romanzo impegnativo, la sua struttura tripartita, la molteplicità dei registri e dei piani narrativi, richiede attenzione, presenza, ascolto. Ma è proprio questa complessità a renderlo un viaggio così significativo. I temi affrontati – la discriminazione, la malattia, l’amore, la libertà, la solitudine, l’identità – si mescolano in una narrazione che non dà mai risposte semplici, ma pone domande radicali. Che cos’è davvero il paradiso? È una condizione esterna, sociale, storica? O è qualcosa che si costruisce dentro, anche (o forse solo) nei momenti più bui?
Yanagihara possiede una rara capacità di penetrare nei pensieri più nascosti dei suoi personaggi; li rende vivi, tangibili, anche quando il mondo intorno a loro sembra fittizio o esasperato. E in questo sta la forza del romanzo: nel farci riconoscere, in ogni epoca e in ogni realtà, il volto mutevole ma sempre umano del desiderio di amare ed essere amati, di essere liberi, di appartenere a qualcosa o a qualcuno.
Questo libro non lascia indifferenti. Ti accompagna, ti sconvolge, ti disorienta. E soprattutto ti costringe a riflettere su quanto siano fragili e mutevoli le nostre certezze: sul bene, sulla giustizia, sul futuro. È un romanzo che si legge con lentezza, con fatica a volte, ma che lascia un segno profondo, come solo i grandi romanzi sanno fare. E alla fine, ti ritrovi a pensare che forse il paradiso non è un luogo, ma una possibilità. Una promessa. O una lotta.
Titolo: Verso il paradiso
Autore: Hanya Yanagihara
Prezzo copertina: € 22,00
Editore: Feltrinelli
Collana: I narratori
Traduttore: Pacifico F.
Data di Pubblicazione: 13 gennaio 2022
EAN: 9788807034817
ISBN: 8807034816
Pagine: 768
Citazioni tratte da: Verso il paradiso di Hanya Yanagihara
Come può saperlo Dio che cosa vuole ogni persona? Come poteva essere sicuro di averli portati nel posto che avevano sognato? Il nonno aveva riso. “Lui sa, David,” gli aveva risposto. “Lui sa, e farà tutti i Paradisi che gli servono.” (pag 195)
Una persona era la cosa peggiore da lasciarsi indietro, perché una persona era imprevedibile per definizione. (pag 251)
… non eri mai riuscito a fidarti della mia capacità di fare il padre se imparasti presto che la gente non si comporta mai come dovrebbe, e che le cose non sono come sembrano. (pag 369)
Ma quando si invecchia, si fa tutto ciò che si può per restare vivi. A volte nemmeno ti accorgi di farlo. A volte, un istinto, un sé deteriore, prende il controllo: e perdi ciò che sei. Non succede a tutti. Ma succede a molti di noi. (pag 550)
…esistono due tipi di persone: quelli che piangono perm il mondo, e quelli che piangono per sé. Piangere per la tua famiglia, disse, è un modo di piangere per te stesso. “Quelli che si congratulano per i sacrifici che fanno per le loro famiglie non stanno facendo un vero sacrificio,” disse, “perché la loro famiglia è un’estensione del loro sé, e quindi una manifestazione dell’ego.” Il vero altruismo, concluse, è darsi a uno sconosciuto, a qualcuno la cui vita non si incrocerà mai con la tua. (pag 648)
Katia Ciarrocchi
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