A cura di Augusto Benemeglio
1.L’unico trofeo della narrativa italiana
Diciamolo subito, la Deledda è una scrittrice dimenticata , e non da oggi. Già nel 1938, appena due anni dopo la sua morte , nella “Storia della letteratura italiana” di Mario Sansone , volume destinato alle scuole medie superiori nella riedizione del 1958, le vengono dedicate ventotto righe, qualcuna in meno rispetto ad un Prati e a un Aleardi, e la si liquida come autrice da “Sardegna mia” e “sincero – ma confuso – impegno morale”. Diciamolo senza ipocrisie , Grazia Deledda è praticamente sparita dall’orizzonte letterario , non la conosce più nessuno, – tranne un ristretto gruppo di aficionados , quasi tutti sardi o di origine sarda con la nostalgia di cavalli dalle reni d’argento, Gennargentu e il mare che va loro incontro tutte le notti – ; la si è dimenticata nonostante il Nobel assegnatole nel 1926 , che rimane a tutt’oggi l’unico trofeo della narrativa italiana , considerando che Pirandello è certamente più drammaturgo che romanziere, tre sono poeti e l’ultimo (Dario Fo) è un “ narr-attore” .
2.L’amore e il vento
Ma chi era veramente Maria Grazia Cosima Deledda ( questo il nome completo) , questa “selvaggia” delle lettere fatta d’argento rame e quarzo , che dotata di grande istinto , ma anche eccezionale forza d’animo , stratega nata , abituata a tenere sotto controllo i propri sentimenti , ambiziosa , affamata di vita e di futuro , e con una sensibilità che conobbe tutte le disperazioni , un intuito e straordinario e un empito di passione morale ( Momigliano disse che Elias Portolu era il libro di più alta e solida moralità dopo i Promessi Sposi!), seppe , in pochissimi anni ascendere ai vertici della narrativa italiana , sbalordire tutti e tutto ? .
Era nata a Nuoro il 27 settembre 1871 , sotto il segno della Bilancia , di chi è nato per vincere . La sua era una piccola città “ dai tristi inverni”, fatta di “casette, basse, nude, mal costruite, brune” , dove viveva alla “penombra della fiamma”, tra i mormorii di una gente sospettosa , in una terra dal doppio isolamento , culturale e anagrafico, e la sua sorte sembrava inevitabilmente segnata come quella di tante piccole ragazze brune nuoresi del suo tempo, senza che avesse nessun fascino, nessuna attrattiva particolare ( c’era in lei un po’ di sole e pietra, fuoco e nebbia, tra gli alberi scuri e i cavalli di rame , poi la notte , e la luna che tramonta chissà dove) … Invece , questa piccola donna sarda ci viene incontro con la sua audace e indomita fierezza arabo-fenicia , su uno sfondo corrusco della Barbagia , come un presepe vivente , i pastori, i contadini , i servi , gli artigiani , il lavoro aspro e faticoso in quella terra dura ,chiusa , avara , che splende di un’arcaica , incontaminata bellezza. Entriamo nel mondo della sua scrittura : le notti animate da fate , folletti, insetti, uccelli , e il mare , lontano, estremo, limite irraggiungibile di quiete , di pace. E poi l’amore e il vento , un amore ambiguo, d’ombra e d’oro, travolgente , incestuoso , drammatico , fatale , crudele , colpevole , vetro e fiamma ; un amore febbricitante , tempestoso , in una società contadina oscillante tra la fede cristiana e la superstizione pagana
3.“Fuggire dall’Isola
Ma Grazia , come donna , non era una canna al vento piena di voluttà d’amore selvaggio, non era una ninfa che dormiva ritta abbracciata ad un olmo, non era una larva che languiva e rifioriva , non era un simulacro di fiamma vera. Era pratica, disinvolta , lucida, attenta, sicura di sé, con i piedi ben fermi e solidi nella terra ferma, come attestano certi suoi comportamenti, certe sue scelte, certi documenti. Del resto , basta guardare certi suoi ritratti giovanili per capire di che tempra era fatta: aveva lo sguardo scuro e obliquo , assolutamente privo di timore, o timidezza, con una determinazione feroce; aveva una forte personalità e un’immensa autostima. Era convinta che sarebbe riuscita a diventare “qualcuno” nella vita , nonostante avesse coscienza del suo isolamento, della sua ignoranza , delle arretratezze in cui era costretta a vivere (aveva studiato solo fino alla quarta elementare, limite estremo per le donne nuoresi di quel tempo, ma poi aveva avidamente letto molti libri ereditati da uno zio prete ) . Come Antonio Gramsci, e tanti altri illustri sardi , sarebbe fuggita da un paese dove “tutti si conoscevano, tutti si giudicavano severamente, e quelli che meno avrebbero dovuto scagliare la prima pietra, erano i più inesorabili”
Nel suo confuso progetto di liberalizzazione , non poteva “entrare” l’amore. Aveva poco più di vent’anni , parlava prevalentemente in dialetto sardo e non si era mai mossa da casa , se non per andare a cavallo sui monti che circondavano Nuoro , ma era già la ragazza più ambiziosa che esisteva in Sardegna , e faceva di tutto per essere all’altezza di tale reputazione. I suoi erano preoccupati per quella sua mania di scrivere e temevano che non riuscisse a trovare marito , perché non era bella, non era ricca, né tantomeno sottomessa, e in casa non sapeva fare nulla. Ma lei sapeva benissimo ciò che voleva , e in quel periodo (siamo nell’estate del 1892) scrisse una lunga lettera all’ “illustre” professore piemontese Angelo De Gubernatis, indianista di fama internazionale , docente universitario di letteratura all’Università du Roma , fondatore di riviste letterarie , poligrafo, antropologo, avventuroso viaggiatore e infaticabile seduttore, a cui seguirono molte altre lettere che incuriosirono prima e affascinarono poi il professore, che voleva conoscerla di persona. Allora lei gli fece un alt: “Sappi che sono brutta , non so parlare , non so vestirmi , non amo e non posso amare …Non m’importa nulla se tu qualche volta mi parli d’amore. A me interessano altre cose”.
Grazia era ( o voleva essere ) tutto il contrario dei personaggi dei suoi romanzi , che vivevano in una società immobile, chiusa, arretrata , esposta agli abissi dell’incesto , tra cognati, tra zii e nipoti , tra cugini carnali ; stati morbosi , eros , tradimento, abbandono, vendetta , odio come una malattia dell’anima che consuma , che corrode, che distrugge. Lei era lucida, attiva, ricca di iniziative , aveva tenacia e astuzia. Voleva dedicarsi anima e corpo alla letteratura , e insieme mantenere rapporti costanti con editori di varie città italiane, stringere alleanze con intellettuali , istruirsi , informarsi , proporre articoli anche sugli scritti altrui , cercare recensioni per i propri, insomma aveva tutte le doti necessarie non solo per costruire un’opera , ma edificare una carriera. E tutte le sue scelte, ivi compresa quella di sposare, senza amore, un mediocre funzionario ministeriale romano, conosciuto casualmente a Cagliari , in uno dei suoi rari spostamenti , nell’ottobre del 1899 , o quella – sicuramente dolorosa – di lasciare la Sardegna e vivere a Roma, furono orientate in quella direzione, oserei dire con sapiente e ferrea strategia.
-4.I “ mammutones”
Le interessava solo la scrittura , era la sua ossessione , la sua vita , e avrebbe voluto essere un po’ il Tolstoj della Sardegna, che era il suo idolo e il suo modello. Appena lasciata l’isola , nell’aprile del 1900 , ecco raffluire in lei un’ondata immensa di saudade che si riverserà in tutti i suoi libri , ecco il privilegio della memoria , delle radici , dell’armonia ritrovata come per incanto , eccola ricreare quel clima , quell’atmosfera di decadenza , di disfacimento dell’antica società sarda , delle famiglie aristocratiche che vanno in rovina , riecco il barbarico fondo dei miti religiosi , delle feste, delle tradizioni locali, fra sangue e l’ ascesi . E alla fine quella ricerca assoluta della pace interiore, della dignità morale, della liberazione dall’incubo del peccato , del rimorso.
Ma le sue sono ricostruzioni “mitiche” , simboliche , legate alla sua infanzia e adolescenza , alla sua nostalgia , frutto di intuizioni e fantasticherie , senza alcuna vera documentazione socio-storico-antropologica e illustrativa . Infatti i primi a non riconoscere quella Sardegna , né a riconoscersi in quei caratteri e in quei personaggi sono proprio i suoi concittadini , che s’indignano con lei, protestando vivamente per essere stati rappresentati come “mammutones”, ovvero maschere che si muovono a scatti in una dimensione innaturale di mimesi disperata”
E poi nei suoi romanzi ci sono omissioni , ingenuità, farragini, cadute di stile, noia, mediocrità,- scrive Renato Serra, – che la pongono a distanze siderali da Tolstoj e gli altri grandi russi.
E tuttavia… i suoi libri si vendono eccome! , i suoi libri vengono tradotti in tutte le lingue occidentali, con piena soddisfazione del suo editore e lei non ha neppure trent’anni! .
In quel solco fatto di superstizione, mistica del delitto e castigo dostoevskiano, la Deledda delinea e configura la Barbagia alla stregua di certi sperduti villaggi russi , il luogo di passioni ancestrali , dei comportamenti tabù che nella loro esemplarità possono essere assunti come allegorie dell’eterna storia dell’errore del castigo , del dolore umano. Gli uomini sono esposti come fragili
“Canne al vento”, il titolo è tratto da Pascal e in qualche modo emblematico , ma l’attenzione della scrittrice si volge – come sempre – più alla contemplazione di un’atmosfera ( la quieta rovina di una famiglia aristocratica , la cupa devozione di un servo e il suo silenzioso rimorso) che ricorda se mai più quella lorchiana della Spagna del Sud , un’atmosfera di cupa , chiusa religiosità legata alla terra , agli scongiuri, ai canti, ai racconti presso il focolare delle cucine , che le fa scorgere l’infinita miseria e solitudine dell’uomo attraverso gli oggetti , i silenzi, le ombre, di un Dio lontano, di un Dio che non aveva volto umano , di un Dio che forse non esiste.
Questa sua dimensione del narrare , tra il fantastico il mito e la leggenda di una Sardegna archetipica di nobili servi preti banditi pastori e contadini , questa precisa scelta stilistica che permea e fascia tutti i romanzi più famosi della scrittrice ( Elias Portolu, Cenere, Edera, Canne al vento , Marianna Sirca, L’incendio dell’uliveto, La madre) di un’atmosera sognante , con un alone di incanto primitivo , e di un animistico presentimento delle cose , un’ esistenza immutabile e senza tempo, fa scoprire all’Italia, all’Europa, al mondo , la Sardegna , un’isola cupa dura chiusa orgogliosa fiera che richiama ora certi paesaggi del Dorset di “Giuda l’oscuro” di Hardy , ora l’Irlanda irredenta di Wilde e Joyce , ora i boschi di betulle della Polonia di Conrad , o la campagna del Varmland svedese di Selma Lagerlof ; infine la tragica sprovvedutezza dei personaggi, il loro fatalismo di fronte agli eventi , il senso incombente della catastrofe, la mistica del rimorso, della condanna , dell’espiazione richiamano alla mente tutta la letteratura russa dell’ottocento, che era allora quella più in voga e apprezzata.
Grazie a lei – annota Giustino Manca – la Sardegna tenta un dialogo alla pari con le grandi letterature europee , e soprattutto con quella russa, popolo antropologicamente molto affine a quello sardo . E può farlo , aggiunge Eurialo De Michelis, perché il suo verismo ha un respiro europeo , un verismo che riscattava il documento in folklore , e il dramma etico-religioso in modi e toni da leggenda , quasi di popolare ballata. E fu probabilmente questo respiro europeo a far guadagnare alla Deledda , nel 1926, la stima degli accademici di Svezia, i giudici del premio Nobel. Ma fu importante anche il suo lessico – scrive Efisio Sulis – l’uso di una lingua sardofona , antiaccademica , svincolata da quella aulica della lingua italiana. Non fu una sua precisa scelta stilistica (pensava in sardo ,e traduceva in italiano, come ammise lei stessa: Io scrivo ancora male in italiano – ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall’italiana”. ) , ma sarà uno degli elementi importanti dei suoi romanzi.
5.La Noia
Scrivere, per lei , non fu mai solo lavoro, ma vocazione, necessità, ossessione , monomania, e anche il suo vero unico divertimento: “Nelle ore in cui non scrivo mi annoio a morte tanto che divento persino smorta in viso. Lo Scrivere è la mia vita , il solo raggio che interrompe la monotonia della mia troppo tranquilla esistenza”.
La noia borghese di Moravia , la noia ossessiva di Casanova , la noia apocalittica di Cioran , la noia esistenziale di Hedegger , la noia sociologica di Madame Bovary , la noia disperata di Schopenhauer , lo spleen di Budelaire , e la noia di Grazia Deledda , di una donna con una spaventosa ansia atavica , divorante , la tipica noia della donna “tout court” che sente il dovere di fare sempre qualcosa , anche un lavoro a maglia o un orribile “decoupage”. Grazia tentò di essere anche una buona moglie e buona madre dei suoi due figli , che adorava ( Sardus, il primogenito , aveva ereditato il suo amore per la letteratura , ma fu colpito dalla tisi e si spense subito dopo di lei , e Franz, che diventò un eccellento chimico) , ma sapeva solo scrivere , e lo faceva per quattordici ore al giorno, senza tregua. Il resto lo faceva male, e si annoiava terribilmente
E’ vero che la Deledda ha ottenuto riconoscimenti , forse, anzi certamente superiore a quelli che erano i propri meriti di scrittrice, ma non fu certo una sua colpa , né si esaltò più di tanto per quel riconoscimento.( I cronisti dell’epoca parlarono della sua grande modestia di donna e di scrittrice ) e se andiamo a ben vedere il Nobel non lo meritavano neppure Carducci e Quasimodo , per tacere di Dario Fo, così come tanti altri letterati di cui si son perse le tracce , e non se ne è mai più sentito parlare. . Ma tutto ciò rientra nel gioco delle scelte , non vince il premio il più meritevole , ma colui che in quel preciso momento ha tutto i venti a suo favore, in primis quelli socio-politici.
Ma quanto vale , oggi, l’opera di Grazia Deleddda? Se guardate bene il ritratto della scrittrice nel momento del suo fulgore (chi la conobbe dice che sapeva essere ironica, che sorrideva restando seria , che sapeva essere spregiudicata e trasgressiva ) , con quel viso fiero , quasi altero , forse lievemente sprezzante , dietro una maschera di durezza , è lei stessa che sembra voler rispondere a questa domanda: “Io sono stata abituata a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza , o dietro un sorriso ironico. Il mio vero pensiero non lo conoscerete mai … o forse sì…Cercatelo nei miei libri , che parlano di infinite distese , di rughe sulla pelle, di delicata rabbia e carezze pietose , d’eterna nostalgia della mia terra edenica , che racchiude tutta l’antica bellezza del creato”….
Augusto Benemeglio
Un felice momento di cultura letteraria. Grazie.
Grazie a te, Enzo.
Forse la Deledda ha pagato,
paradossalmente, proprio il
Nobel. Nel campo della letteratura
le invidie sono fortissime. E c’era
qualcuno che credeva di meritarlo più
di lei…E comunque la critica l’ha
quasi messa nell’oblio , ma le gerarchie
nel campo dell’arte e della letteratura
in specie fanno presto a cambiare…Magari
tra una decina d’anni la ritroviamo tra i
primissimi romanzieri. Tieni conto che il
suo è L’UNICO Nobel assegnato a una NARRATRICE
italiana, gli altri sono per la poesia e il teatro.