E’ indubbio che qualsiasi avvenimento che porti in sé un’ampia tragicità possa costituire lo spunto per esaltare la creatività degli scrittori e in questo senso la guerra con l’ossessionante incombenza della morte costituisce un terreno fertile di idee.
Nel XX secolo ci sono state due guerre che, per la loro portata e per il numero dei belligeranti coinvolti, sono state definite mondiali. Non sono mancati autori che si sono cimentati con la seconda, ma sono in numero limitato, mentre invece per la prima la presenza di narratori e di poeti che ne hanno parlato è veramente cospicua e in genere si tratta di gente che l’ha vissuta, che in un campo o nell’altro l’ha combattuta, magari da convinto interventista e che a contatto con la realtà ha scoperto quanto poco di bello ci sia nella morte e come la retorica lo avesse indotto a passi da allucinato; di seguito parlerò di alcuni di loro
Su tutti svetta il tedesco Erich Maria Remarque, con quel Niente di nuovo sul fronte occidentale che rappresenta fino a oggi la più alta condanna di ogni guerra. E’ questo un romanzo in parte autobiografico in cui l’autore ha saputo riversare a piene mani tutta la sua esperienza, mantenendo inalterato quel senso di angoscia che lentamente si trasforma in rassegnata disperazione.
Sempre nella parte avversa c’è l’austriaco Fritz Weber, osservatore attento dei fatti, più volto a descriverceli con animo storico che a prendere le distanze dalla mostruosità della guerra che, anzi, viene accettata, se pur non amata.
Così con Tappe della disfatta, Guerra sulle Alpi e Dal Monte Nero a Caporetto riesce a fornirci un prezioso contributo, frutto anche della sua partecipazione, con gli occhi di uno che stava di là, cioè con quelli, peraltro abbastanza imparziali, del nemico.
Un tentativo italiano, solo in parte riuscito, di emulare l’universalità del romanzo di Remarque, si ha con Un anno sull’altipiano, di Emilio Lussu, un romanzo denso, pregnante, per non definirlo di classe, in cui l’unico errore è nel dipingere come predominante nella vicenda la figura terrea, priva di sentimenti, del generale Leone, sì che sembra che gli orrori descritti finiscano con l’essere a lui imputabili e non invece alla guerra.
Apprezzabile, anche se poco conosciuto, è invece una sorta di diario scritto da Carlo Salsa e intitolato Trincee (confidenze di un fante).
Senza raggiungere l’universalità di Niente di nuovo sul fronte occidentale riesce tuttavia a darci un’intensa visione dell’atmosfera del conflitto, sia pure limitata agli avvenimenti che videro effettivamente protagonista l’autore.
Sarà per una certa indole crepuscolare, sarà perché Salsa riesce ad ottenere in modo semplice l’essenzialità, ma questo romanzo è quello che, partendo dal particolare, ha più ambizioni di tendere all’universale, senza però arrivarvi, ma avvicinandovisi di molto.
Ci sarebbe anche Addio alle armi, di Ernest Hemingway, basato sul periodo che trascorse in Italia come conducente di ambulanze del nostro esercito. Purtroppo gli intenti commerciali dell’opera sono fin troppo evidenti e l’immagine della guerra, vista prima, durante e dopo la rotta di Caporetto, è offuscata da una storia d’amore che è il vero e proprio cardine della narrazione.
Da ultimo, ma non meno importante, c’è un’opera di grandissimo rilievo, scritta proprio in trincea, magari su un pezzetto di carta, su un foglio di giornale, idee messe giù rapidamente perché c’è l’incertezza del tempo, perché da lì a poco si potrebbe essere morti.
Mi riferisco All’allegria di naufragi, comprensiva della sua prima opera dal titolo Il porto sepolto.
Con questi versi Giuseppe Ungaretti avvia una nuova corrente letteraria, che prenderà il nome di ermetismo, termine coniato per la prima volta nel 1936, con riferimento soprattutto alle opere del grande poeta alessandrino.
Non intendo andare oltre parlando appunto dell’ermetismo, della sua contrapposizione al decadentismo e al futurismo, ma mi limito a osservare la grande efficacia di un poeta che in pochissimo riesce a ricreare atmosfere, angosce, malinconiche rassegnazioni, come in San Martino del Carso.
E’ un testo di grande forza espressiva, dove le immagini del paese distrutto dalla guerra sono richiamate per somiglianza alle distruzioni nascoste nel suo cuore, causate dalla scomparsa di tanti cari amici.
San Martino del Carso
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato.
e Gadda?
come si fa a pubblicare un romanzo?