Anche se qualche volta lo potevate vedere con noi per le vie di Catania, Giovannino Fisichella non era un nostro vero amico. Ed era un bugiardo. Un grande bugiardo.
Quando, di tanto in tanto, faceva parte del nostro gruppo era solo perché lo volevamo noi.
Come dire che entrava su invito.
E noi non lo invitavamo spesso. Lo cercavamo solo quelle volte che la nostra cattiveria voleva qualcosa su cui posarsi. In quelle sere lo trascinavamo per Via Etnea o per i viali della Villa Bellini mettendolo al centro di una falsa attenzione per alcune ore, solo per estorcergli le sue enormi bugie sulle donne e i suoi amori, facendo finta di crederci.
Ci chiedevamo spesso perchè mentisse in un modo così esagerato, senza necessità. E qualche volta ci balenava l’idea che una qualche necessità gliel’avesse Giovannino, ma non riuscivamo a capire qual’era e la cosa ci infastidiva.
Giovannino aveva compiuto da poco diciannove anni, il viso lungo, un po’ triste e a guardarlo da lontano si sarebbe potuto definire anche bello quel viso, forse troppo bello e delicato, incorniciato da capelli biondicci e illuminato da grandi occhi chiari, sempre sgranati in un atteggiamento infantile di esagerata attenzione. Un viso che arrossiva per un nonnulla, specialmente se si parlava di donne.
Le donne. Mario, Cesare ed io sapevamo che quello era il suo punto debole, tanto da imporgli di usare tutte le sue difese. All’inizio non parlava neppure; ascoltava e arrossiva e sentivamo, allora, quasi palpabile, tutta la sua sofferenza, una sofferenza particolare che non riuscivamo a capire. Poi il suo bisogno di parlare diveniva prepotente e gli faceva esplodere un caleidoscopio di bugie.
Cominciava piano, quasi in sordina. Una voce incerta, tremante. Poi i suoi occhi smettevano di vederci e lui cadeva nel suo mondo irreale e parlava, parlava, parlava. Le sue avventure erano conturbanti discese in un inferno di dettagli pazzeschi, minuziosi, ossessivi; le carezze, i colori, i suoni dei suoi sogni Giovannino li descriveva con l’ansia pignolesca di scordare qualcosa, e così ripeteva i particolari, guardandoci con gli occhi spenti. Sembrava che si guardasse dentro.
In quelle avventure fantastiche l’ambientazione cambiava di continuo. Alberghi di lusso, trascinato da turiste lascive su grosse macchine straniere, morbide alcove in ville sulla scogliera o frettolose avventure sotto i ponti della ferrovia in una notte deserta.
Il posto non importava: era uno sfondo secondario per le immagini di Giovannino. La donna entrava in quello sfondo, si agitava, muoveva cosce, seni e fianchi, apriva le sue labbra invitanti facendo serpeggiare la lingua e, invariabilmente, cadeva avviluppata in un lungo abbraccio erotico.
Ripensandoci non c’era alcun calore in quei racconti. Nessuna eccitazione. Le immagini si susseguivano diverse ma stranamente stereotipate e precise. Cambiava solo l’ambiente. Quei racconti sembravano letti e recitati.
Noi ascoltavamo dandoci di gomito e balenando tra noi grandi occhiate d’intesa. Mario, dietro Giovanninno, faceva le smorfie e si torceva in una risata muta. Però, sotto sotto, quei vaneggiamenti quasi letterari ci piacevano. Le sue favole erotiche si mescolavano con i colori della notte, si univano agli stridii dei pneumatici sui selciati di lava e alle musiche lontane di qualche grammofono, si srotolavano irreali e fantastiche, come in un film.
Ma Giovannino non era pazzo. Ridiventava normale, cioè triste e impacciato, quando il racconto finiva e stanco e sfibrato dai chili di bugie che aveva partorito nell’ultima mezz’ora, si accasciava su una panca dicendo: “Tanto, voi non ci credete. Lo so. Non sono mica scemo”. Poi zittiva di colpo. La sua fantasia si era esaurita, moriva. Non bastavano i nostri richiami e il finto interesse a riportarla in vita. Diventava muto.
* * *
In una di quelle sere vuote d’inizio estate in cui il primo fresco della brezza porta i pensieri nebulosi ad addensarsi piano piano in un’idea precisa, come piccole gocce d’acqua create dal vapore d’una pentola, in una di quelle sere, tra noi, cominciò a prendere forma l’idea di mettere sotto il naso di Giovannino la chimera d’una donna vera.
L’idea partì da Mario. Mi parve un nuovo scherzo. Eccitante. Diverso. Ancora nebuloso e incerto ma divertente.
Occorreva una donna reale da inserire in una storia inventata: una storia pazzesca come quelle che s’inventava lui. O almeno una mezza storia, nei limiti delle nostre possibilità. E poi starne a vedere l’effetto.
– “Che scherzo del cavolo è ?”- disse Cesare che era rimasto ad ascoltarci mentre tentavamo di schiarirci le idee – “ce la mettete voi la ragazza?”
– “Non ci vuole proprio una ragazza vera per fare una storia finta – dissi io – cioè non una ragazza in carne e ossa, voglio dire. Ci basta una voce.”
– “La voce? La voce di chi?”
– “Di tua sorella” – dicemmo quasi in coro Mario ed io e, dal tono, Cesare capì che quella non era una battuta di spirito.
– “Al telefono – proseguì Mario – è solo una voce. Non la conosce…. non può collegare…”
Cesare scrollò la testa, ripetutamente, con forza.
– “Due, tre telefonate, – continuò Mario con la voce più suadente che si ritrovava – lo scuote, lo sbatacchia un po’, lo fa cucinare nel suo brodo… gli racconta qualcosa, un po’ di fantasia, ecco… tutto lì.”
Cesare continuava a scuotere la testa, ma – ci sembrò – con meno vigore. “Che scherzo del cavolo è?!” – ripeté sottovoce, quasi soprapensiero – “ E dopo? Mettiamo che Giannino si agiti davvero, che cerchi…. che trovi…che poi…”
– “Che poi …cosa?”
– “Niente. Niente. E comunque Marisa non ci starà a fare una cosa del genere. Questo è uno scherzo da grandi…. lei non ha neppure sedici anni…”
La conoscevamo, Marisa: piccola e un po’ tarchiata, con i capelli neri e corti, sempre arruffati e una vocina sottile sottile. Non era una bellezza ma neanche brutta, forse ancora troppo acerba e piena di lentiggini ma era una ragazzina sveglia e di spirito: la persona giusta, ne eravamo sicuri.
“E tu prova” – dicemmo, quasi all’unisono, Mario ed io.
E Cesare provò ma non dovette faticare poi tanto a convincere Marisa se l’indomani ci descrisse già la prima telefonata, parola per parola, come un registratore, imitando in falsetto le voci di sua sorella, e noi a ridere a crepapelle tra una frase e l’altra.
– “Ah, così ha detto? Proprio così? E Giovannino? Che diceva Giovannino?”
Cesare ignorò la domanda e continuò a scimmiottare la vocina sottile di sua sorella: “Io ti conosco, sai, ma tu non saprai mai chi sono… o forse un giorno, chissà… forse un giorno…”
– “Continua” – dissi io, asciugandomi gli occhi che mi lacrimavano dal gran ridere, “E Giovannino? Che diceva quel fesso?”
-“Mica tanto fesso Giovannino, non l’ha proprio bevuta. E’ rimasto freddo. Impassibile. Da non crederci. Comunque, Marisa ha recitato benissimo.– e qui continuò in falsetto – “ Si mi piaci. mi sei sempre piaciuto…dal primo giorno che ti ho incontrato… dove?….non te lo dico… Vorrei rivederti ma non posso… perchè … perchè non sono ancora sicura, sicura di me… poi, un giorno…certo…no… no … no… non tentare di conoscermi… deve bastarti la mia voce…” e così via, capite? un tira e molla in piena regola, insomma.”
Cesare riprese fiato. Parlare in falsetto gli aveva seccato la gola. Sembrava accaldato. Il viso sempre più rosso.
Mario aveva un modo tutto suo di ridere: sghignazzava torcendosi, abbassandosi in avanti fino a terra, tenendosi la pancia – “ Devi… devi dire a Marisa che …uh, uh, uh … devi dire a Marisa, sì,…che…vogliamo esserci quando lo chiama la prossima volta.” riuscì a dire a singhiozzo.
Cesare s’incupì e scosse la testa – “Ah no, niente da fare. Marisa telefona da sola, era nei patti. Voi due rovinereste tutto e poi… poi mi ha detto che non potrebbe neppure parlare, immedesimarsi… recitare, insomma. E nelle prossime telefonate non vuole neppure me vicino al telefono. Dice che non le riesce bene se c’è qualcuno, capite? Prendere o lasciare.”
– “Non è che sei geloso?” gli soffiai sul muso.
– “Io geloso di Giovannino? E che è da ridere? Quello? le donne non sa neanche cosa sono! E poi, per tua norma e regola, sappi che mia sorella è una ragazza di spirito e quello che vuole è prenderlo per i fondelli e farlo cuocere nel suo brodo. Tutto qui.”
Mario ed io eravamo delusi. Svaniva tutto il succo dello scherzo. Ci si leggeva in faccia la delusione.
– “E come saprai, allora …, come sapremo….” balbettai.
– “ Oh Dio, mi racconterà tutto dopo, è logico! Ma in camera sua non mi ci vuole. Chiaro?”
* * *
Le telefonate continuarono per alcuni giorni, sullo stesso tono, ma stranamente più il tempo passava e meno sapevamo: dopo un paio di settimane sembrava che la cosa si fosse esaurita da sola. Per colpa di Marisa, forse, che ne aveva avuto abbastanza di uno stupido scherzo.
Così, almeno, ci aveva detto Cesare.
Passarono le settimane e non sentimmo più Giovannino fino ad una domenica pomeriggio di fine agosto, quando mi chiamò al telefono con una voce così strana che stentai a riconoscerlo. Una voce più decisa, direi più “vera” e non impastata e tremolante come il solito.
Si sentiva una fretta strana in quella voce, come se avesse preso una decisione improvvisa e forte e avesse timore di tornare sui suoi passi.
“Ho telefonato anche a Mario e a Cesare perchè vi devo parlare. A tutti e tre. Vi devo dire…ecco…vi devo dire una cosa.”
“Una cosa? Che cosa?” – chiesi, ricordandomi d’un tratto dello scherzo che credevo ormai esaurito da tempo.
“Niente, niente…”- ripeté lui con forza – “una cosa, …una cosa importante, una cosa…mia.”
“Una cosa tua?… Bella o brutta?” azzardai io, e intanto pensavo che forse Cesare non ci aveva detto tutto. Probabilmente le telefonate avevano avuto un seguito e Giovannino ora non stava più nella pelle e voleva raccontarci tutto; tutte le balle che s’era bevuto da Marisa, magari infiocchettandoli come al solito con un lungo nastro di bugie.
“Una cosa, ti dico… importante.” – sussurrò Giovannino e in quel sussurro mi sembrò di vedere tutte le immagini romantiche e fantastiche che s’erano intrufolate nella sua testa, le dolci parole che s’era bevuto. Mentalmente applaudii a Marisa. Una recita perfetta. L’aveva continuata da sola, tranquilla e senza strombazzamenti. Forse neppure il fratello sapeva qualcosa. Ma c’era riuscita.
“Bene, bene. E allora a stasera. Ci vediamo stasera alle nove alla Villa Bellini. Ti stà bene vicino al Palco della musica?” “Bene, ci vedremo lì.” – “E stasera ne sentiremo delle belle” continuai tra me e me “e anche con l’accompagnamento musicale”.
* * *
La sera arrivò, ancora calda, con un refolo di vento che muoveva appena le foglie. Saliva dalla marina e sapeva di sale, mescolato all’odore del gelsomino e dell’albero del pepe.
Famiglie intere, con frotte di bambini e ragazzi al seguito, salivano veloci i viali curati del Giardino Bellini e le scalinate che portano al Palco, affrettandosi per trovare ancora un posto nei sedili migliori.
Alcuni s’erano affittate le sedie e lasciavano che i bambini se le trascinassero dietro, come fossero cavallini o trenini di legno, torno torno al palco di ferro, mentre i grandi correvano per trovare l’angolo buono.
Già si sentivano gli ottoni della banda che provavano gli attacchi. Le lunge note e i trilli con cui accordavano gli strumenti si mescolavano al brusio della gente e agli strilli dei bambini più piccoli, già stanchi di star seduti, mentre i più grandicelli formavano spontaneamente gruppi per giocare un poco discosto dal Palco.
Noi tre non ci curavamo troppo della musica. Anzi, per la verità, ci infastidiva non poco quella folla che ci strusciava attorno, correndo per accaparrarsi una sedia, un sedile o la base di un lampione, ma stavamo là, lontani dal Palco, in un posto che era il nostro solito punto d’incontro.
Aspettavamo da cinque minuti e la nostra curiosità aumentava, così cominciammo a passare in rassegna le varie possibilità, tanto per passare il tempo.
Cesare, a disagio, fumava in silenzio. Ci aveva detto di non sapere niente. Proprio niente. Marisa aveva fatto solo due o tre telefonate, ne era sicuro. Lo scherzo era finito. Non poteva essere continuato a sua insaputa.
Mario ed io dicemmo “Bah” all’unisono e continuammo a guardare in fondo al viale. Io – chissà perchè – mi costruii una storia romantica tra Giovannino e Marisa. Telefonate, incontri furtivi dopo la scuola. Bugie in casa. Mi sembrò quasi di vederli salire dal Viale, mano nella mano. Lei piccola e minuta, con un sorriso accattivante, lui impacciato e felice.
Immaginavo anche la faccia di Cesare che in quella fantasia assumeva dei contorni sfocati. Che cosa avrebbe detto, cosa avrebbe fatto se…? Forse avrebbe assunto i toni offesi del fratello maggiore per essere rimasto all’oscuro di tutto? Sarebbe saltato addosso a Giovannino picchiandolo a sangue? Oppure, dopo un attimo di smarrimento, li avrebbe abbracciati entrambi, con fare quasi paterno, commosso da una storia d’amore nata da uno scherzo?
Vedemmo arrivare Giovannino, da solo, proprio quando la banda attaccò il primo pezzo in programma.
Ma non era il solito Giovannino, trascurato e un po’ sciatto. Indossava un vestito sportivo molto chiaro e scarpe lustre e veniva su a passo svelto, quasi aggressivo. La nostra curiosità aumentò in modo esponenziale. Cosa aveva cambiato Giovannino in queste ultime settimane?
“Ti fai aspettare, eh, Giovanni ?” – disse Cesare a mò di saluto. Notammo subito che non aveva usato il diminutivo.
“Bella musica ma troppo casino.” – fece Giovannino guardandosi intorno. “Andiamo giù nel Viale. Vi devo parlare.”
“Cosa sono tutti questi misteri?” – disse Mario. Dopo una pausa, con enfasi buffonesca declamò: “Hai forse ammazzato qualcuno? Hai svaligiato una banca? Hai fatto tredici al Totocalcio? Hai messo incinta la serva? oppure … oppure…ti sei finalmente i-n-n-a-m-o-r-a-t-o?” e giù a ridere a suo modo, curvo, stringendosi il ventre con le braccia incrociate.
Giovannino non rispose, non lo guardò neppure. Ci precedeva nel Viale con le mani in tasca, dando calci alle foglie cadute. Ora che la musica si sentiva più piano, in lontananza, potevamo udire anche il suo respiro affannoso venir su e giù dal petto come se si preparasse a un’immersione o a una lotta.
Lo seguimmo per un bel tratto, in silenzio. Mario aveva smesso di ridere e faceva finta di cercarsi qualcosa in tasca. Cesare aprì il pacchetto delle sigarette e poi lo richiuse perchè stava già fumando.
Giovannino continuò a camminare davanti a noi e senz’avvedersene ci distanziò d’un buon tratto, così che quando parlò la sua voce ci giunse attutita, quasi coperta dalla musica che si sentiva ancora in sottofondo. Gli sentimmo dire “Si è vero, Mario, sono innamorato.” Poi aggiunse, voltandosi: “Ma questi sono cavoli miei e non è per questo che sono qui.”
Mario smise di ridere e a noi la cosa non parve neppure strana. Era un Giovannino diverso quello che ci trovavamo davanti. Un Giovannino che poteva anche far la voce grossa perchè era davvero diventato improvvisamente più grande.
Si fermò e noi lo raggiungemmo. “Statemi a sentire – disse – voi non avete capito niente. Forse non mi siete neppure tanto amici. Ma non importa. Però vi conosco bene e so che in fondo potete capire.”
Eravamo confusi e impacciati. Forse ci sentivamo tutti in colpa davanti a Giovannino. Ripensavo alle risate nascoste, ai cenni che ci davamo a sua insaputa, al finto interesse per le sue strane storie e a come alimentavamo le sue bugie. Ripensavo soprattutto a quello scherzo telefonico.
Eravamo in attesa. Giovannino taceva e intanto smuoveva con la scarpa le foglie che invadevano il viale e ne aveva accatastato un mucchietto che poi schiacciò con il piede, ripetutamente, con forza, quasi con cattiveria.
Cesare era diventato impaziente: “Va bene, ti sei innamorato, e si può sapere di chi?” – disse con voce alterata.
“Te lo ripeto: questo non è importante” – rispose piano Giovannino. .
”Come non è importante?”- Cesare era sempre più rosso in viso – “Ci fai venire qua, di premura, chè devi dirci non so che cosa, una cosa speciale, poi ammetti che sei innamorato. Si, insomma, che hai trovato una ragazza. E questa sarà proprio speciale per farti innamorare. E dici che non è importante? E cosa è importante allora? Sarà importante sapere chi è, non credi? Forse la conosciamo?” – Il suo viso ora era diventato paonazzo, gli occhi sbarrati – “Forse la conosco IO? Dì,Giovannino, io… IO, la conosco?”
Giovannino era arretrato d’un passo. Non sembrava impaurito ma perplesso e sul suo viso si disegnavano rughe di attenzione, come se tentasse di capire la tirata di Cesare che, intanto, stava accartocciando il pacchetto delle sigarette mezzo pieno e ansimava come un mantice.
“Che t’importa di sapere il suo nome, Cesare?” – fece Giovannino. “Ve ne ho dati tanti di nomi su cui ridere. Uno più, uno meno cosa importa? Il fatto è che sono stufo, stufo di tutto. Questo è importante.”
“Sei innamorato e sei già stufo?” – feci io – “Che novità è questa Giovanni? Stufo di cosa?”
“Stufo, stufo. Non posso continuare così!”
“E allora?”
“E allora ho deciso di farla finita.” Qualcosa si bloccò dentro di me, non ero preparato a questo.
“Ohè, Giovannino, son cose da dire, queste?” fece Mario. “Sei impazzito, per caso?”
Giovannino sorrise. Sembrava quasi divertito di quel misto di paura e curiosità che leggeva nei nostri occhi.
“No, non voglio ammazzarmi, Mario, stai tranquillo. Voglio cominciare a vivere, anzi. Da ora, da subito. Per questo ho deciso di farla finita con le menzogne, le paure. Niente più paura. L’ho detto ai miei e lo dico anche a voi. Io sono così e così devo essere.”
“Così come?” chiese Mario piano, quasi in un sospiro.
Si era insinuata in noi una risposta, la leggevo negli occhi sempre più sbarrati di Cesare che aveva smesso di ansimare, lisciava con cura il suo pacchetto di sigarette stropicciato e il suo viso era scolorito.
Mario era anche più strano: la sua bocca, di solito sempre atteggiata ad un riso anche troppo facile, adesso era semiaperta, quasi volesse aspirare, con l’aria, la comprensione piena di una nuova idea. “E se sono così è perchè ci sono nato così. Mi capite?” continuò Giovanni ignorando la domanda di Mario.
“E per via delle donne?” – azzardò Mario – “E’ un fatto di donne, Giovannino?”
“Le donne… le donne! Per voi tutto è un fatto di donne! E io ve ne ho date di le donne. Le avete avute. Me le cercavate e io ve le davo. A decine, tutte costruite al momento. E non era per prendervi in giro. Le costruivo anche per me. Soprattutto per me, capite? E sapete che gusto c’era? Il gusto di essere come gli altri, come tutti.Come credevo di dovere essere. Ma era sbagliato. Tutto sbagliato.”
Silenzio. Quello che elaboravamo era più grande di noi. Una cosa da grandi..
Silenzio. Forse avevamo paura di sentire il resto oppure avevamo paura di ammettere che sapevamo già da tempo, ad un livello remoto della coscienza, quale era l’angoscia di Giovannino e il perchè delle sue bugie.
Chissà come interpretò Giovannino quel silenzio. Si vedeva che si sforzava di non piangere: strinse le labbra e riprese ad accumulare le foglie per terra e a schiacciarle con il piede.
“Perchè io le donne… l,’ho capito tardi ma è così, …io le donne non…. non … . Non sono come voi, ecco… capite?” – continuò – “Ci sono tanti modi per dirlo e voi li sapete tutti. Avanti, diteli adesso. Tutti. E’ meglio sentirmeli sputare in faccia ad uno ad uno. Sempre meglio che saperli sibilati dietro le spalle. Mi ci devo abituare. Ditelo, ditelo…Giovanni è un frocio, una checca, un finocchio… una brutta verdura che si può schiacciare come queste foglie marce… ”
“Giovanni…” – cominciò Cesare con voce bassa – “ma Giovanni, che dici?…”. Penso che volesse anche aggiungere qualcosa ma non lo fece.
Anch’io volevo aggiungere qualcosa. Giovannino, volevo dire, abbiamo giocato con te come tre gatti con un gomitolo di lana, graffiando i fili della tua anima aggrovigliata. Abbiamo goduto nel vedere quei poveri fili strappati e te che cercavi di ricucirli e coprirli con le bugie più assurde. Ti abbiamo squarciato il cuore mille volte sbandierando la nostra grande mascolinità, come un vessillo necessario che noi avevamo ma che sentivamo ti mancasse. Ti abbiamo fatto sentire un verme. Forse lo volevamo, forse no, ma l’abbiamo fatto. Come un gioco. Un gioco crudele. Perdonaci.
Dissi, invece: “Lo conosciamo?”
Giovannino mi guardò e nella sua bocca si disegnò un mezzo sorriso. Poi il suo sguardo si posò su Mario che strusciava i piedi sull’erba, fingendo di togliersi qualcosa da sotto la suola e su Cesare che si dondolava impacciato appoggiato ad un albero.
“No – disse – voi non potete conoscerlo. E’ un ragazzo di un altro pianeta. Come me, del resto. E poi ora parte. Va al Politecnico, a Milano. Forse un giorno lo conoscerete, quando ritorna… se le cose cambiano…”
Dall’alto del Viale alberato gli ottoni fecero scivolare su pensieri sempre più confusi una musica grave che accompagnò i nostri passi e i nostri silenzi fino al cancello del Giardino. Era un Andante maestoso, già storpiato dai i rumori delle macchine e dallo stridio dei pneumatici sulle balate ancora calde di pietra lavica.
Enzo Maria Lombardo
Odore paesano, benché in citta, in un periodo quando la vita si svolgeva a vista d’occhio, sbirciando sopra la spalla dell’amico. Non ci sono vitelloni ma tre giovani magari “buontemponi” come tanti di noi siamo stati, che restano prigionieri del proprio gioco. Un bel quadro dove immagini e sentimenti si mischiano con delicatezza ed esplodono con la forza di una confessione coraggiosa pronunciata quasi sottovoce ma con consapevolezza per non ferire chi usava lo stiletto.