Era una primavera fatta di tiepidi giorni quella del 1940, una stagione come si deve, con le rose che sbocciavano vellutate e rigogliose e il grano che svettava verde nei campi. Sarebbe stato un anno come gli altri, se non si fosse avvertito nell’aria il cupo brontolio, come di un temporale estivo, di una tragedia che sembrava avvicinarsi ineluttabilmente.
Già si combatteva in Francia, anzi le truppe tedesche erano ormai dilagate nel territorio d’oltralpe, dopo aver fagocitato la Polonia ed aver annichilito il Belgio e l’Olanda. Insomma la guerra lampo sembrava dar ragione ancora una volta all’ometto con i baffi che strepitava a Berlino proclami su proclami e che con sicumera si sentiva padrone del mondo.
L’Italia, alleata della Germania, pareva in attesa, come una spettatrice interessata, ma che non aveva nessuna voglia di pagare il biglietto.
Benito Mussolini tentennava, si barcamenava, ma più passava il tempo e la vittoria della Germania sembrava certa, più si crucciava di non essere della partita, di non avere il suo angolo di gloria.
Gli italiani, in verità, non è che tenessero molto a scendere in campo, peraltro a fianco di quell’alleato di cui non serbavano un buon ricordo fin dalla prima guerra mondiale.
La propaganda, però, agiva sottilmente: non era forse vero che in Etiopia ci si era coperti di gloria? Le nostre tradizioni romane non ci solleticavano a prendere parte a un conflitto dall’esito ormai rapido e sicuro? La nostra Marina non era la più forte del Mediterraneo e la nostra aviazione, quella della grande trasvolata di Balbo, non era ammirata in tutto il mondo?
Queste argomentazioni, opportunamente insinuate nelle coscienze, cominciarono a dare i loro frutti e piano piano molti finirono con il convincersi che la guerra sarebbe stata una semplice passeggiata, una delle tante parate così ben architettate da Starace.
Abbracciò quest’idea anche Annibale Chiocchetti e come lui quasi tutti i giovani del paese, che sembravano diventati dei galli da combattimento. All’osteria risaltava su una parete una carta geografica della Francia su cui erano appuntate le bandierine dei belligeranti, con quelle francesi e inglesi che si spostavano gradualmente verso la Manica e quelle tedesche che le incalzavano.
Ormai le discussioni non erano più sportive, ma belliche e lì la propaganda fascista aveva facile gioco.
Il podestà, quasi parlando fra sé, sbottava ogni tanto:
– Il Duce è troppo prudente e poi è un signore; probabilmente non vuole infierire su un nemico già vinto. Però il nostro intervento è ormai inevitabile, perché ne va del nostro onore.
Immancabile seguiva un mormorio di approvazione, quasi un belato assordante di un gruppo di pecore che si erano scoperte del tutto impavide.
I più vecchi, però, raccomandavano la calma, forse memori di quella prima guerra che avevano combattuto e che anche allora si era presentata facile e di brevissima durata.
Fu così che a un certo punto anche Benito Mussolini si convinse che le parole della propaganda erano del tutto veritiere e finì col prendere quella decisione che lo avrebbe poi travolto, distruggendo però una nazione e arrecando lutti smisurati.
Il 10 giugno 1940 ci fu la proclamazione della dichiarazione di guerra contro gli anglofrancesi e la conseguente mobilitazione generale.
Annibale Chiocchetti, che già aveva fatto il servizio militare di leva, benché sposato e con un figlio a carico, ritenne di partire volontario, nonostante le suppliche della moglie e della madre.
– Che italiano sarei se nel momento del dovere dovessi tirarmi indietro? E poi, non farò in tempo a partire che sarò già di ritorno.
Tutte le argomentazioni delle donne furono inutili e lui il giorno dopo era già arruolato.
Fu inquadrato nella fanteria e inviato con il suo reparto in Piemonte, nei pressi del confine con la Francia.
Lì, in pratica, rimase acquartierato senza toccare nemmeno un’arma, anzi imparando a conoscere la qualità dei vini delle Langhe.
Anche se un po’ più ad est si verificò qualche combattimento con i francesi, che per poco non si risolse in una disfatta, il grosso delle truppe fece i suoi ozi di Capua, fino alla resa del nemico.
Tutto, insomma, sembrava andare secondo i piani e già Annibale pensava che avrebbe trascorso l’inverno a casa, al tepore del focolare, nella sua famiglia e con il suo lavoro, ma Mussolini, ingelosito dalle travolgenti vittorie tedesche, che avevano spazzato via anche la resistenza di cartone della Jugoslavia, pensò bene di tirare un colpo mancino al suo amico Hitler, dichiarando guerra alla Grecia il 28 ottobre 1940.
Anche in questo caso ci fu una solenne promessa di guerra rapida e sicuramente vittoriosa, tanto i greci sembravano un esercito evanescente.
Questi, però, ritrovarono l’antico coraggio nel difendere la loro patria e una campagna che doveva essere una passeggiata trionfale rischiò di trasformarsi in un disastro senza precedenti.
Su questo fronte fu trasferito, in tutta fretta, il reparto di Annibale Chiocchetti e lui, promosso caporale per chissà quali meriti, visto che non aveva nemmeno sparato un colpo, vide, per la prima volta, gli orrori di un conflitto, combattuto su un terreno impervio, nei rigori dell’inverno e in condizioni disumane.
Questa volta Annibale andò in prima linea, una trincea che tanto ricordava quelle del Carso, fradicia d’acqua, con i piedi immersi nel fango tutto il giorno e il freddo che aveva facile gioco su divise che sembravano di carta velina.
In cambio i Greci non sparavano molto, perché erano costretti a razionare le munizioni, e più che vere e proprie battaglie si verificavano frequenti scaramucce, particolarmente cruente però.
Nella vita di trincea, a contatto con il pericolo, si impara a conoscere gli altri e soprattutto se stessi e lo stesso avvenne anche per Annibale.
Fra i suoi commilitoni ce n’era uno, piccoletto, magro come un chiodo, che era conosciuto perché si offriva volontario per andare di pattuglia al posto del designato, ovviamente contro un corrispettivo in denaro.
Si chiamava Nino Terlizzi, ma Annibale l’aveva subito soprannominato Il tirchio, perché a rischiar la pelle per 500 Lire dell’epoca bisognava esser per forza attaccati più al denaro che alla vita.
– Caporale, lo faccio perché sono soldi che servono a casa.
– Sì, Nino, ma aumenti il rischio di non tornare a casa.
– Casa, casa mia è sempre bella, anche con la fame.
E gli prendeva una malinconia che lo costringeva ad accovacciarsi in un angolo, tenendo il capo basso.
Gradualmente fra Annibale e Nino si instaurò un rapporto d’amicizia , una fratellanza che nessuno dei due avrebbe potuto supporre.
– Caporale, sto vicino a Cerignola in Puglia e sono un bracciante. Ho tante bocche da mantenere: due genitori vecchi, mia moglie, un figlio piccolo di due mesi e tre fratelli, uno che non ci sta con la testa, un altro che per un incidente è sciancato e un altro ancora che quando può lavora.
A sentir queste cose ad Annibale vennero le lacrime agli occhi:
– Ma non ci sono sussidi?
– Capora’, ma quali sussidi! Quando mi hanno chiamato in guerra sono stato contento per lo stipendio che va tutto a loro, ma è ancora poco e allora arrotondo. Tanto, se è la mia ora, lo è anche se non vado di pattuglia al posto di un altro.
Passarono i giorni, con il freddo che aumentava, provocava congelamenti agli arti e contribuiva a distruggere un esercito già decimato dall’intraprendenza dei greci che, in quel clima, sembravano a loro agio.
Della compagnia erano rimasti in pochi e questi erano quasi irriconoscibili, dilaniati dall’aver compreso che la guerra non era una passeggiata, ma un incubo che non sembrava aver mai fine.
Si arrivò così al 13 dicembre 1940, un giorno che sarebbe rimasto indelebilmente impresso nella memoria di Annibale.
Alla sera giunse il capitano e disse che era necessario uscire di pattuglia per vedere che cosa stavano preparando i greci, stranamente silenziosi da un paio di giorni.
Il tenente scelse 5 uomini e fra questi Annibale.
– Capora’, vado io al posto tuo; mi dai 500 lire e tu stai in trincea.
– No, Nino, non è la prima che mi capita e vado.
Terlizzi allora si rivolse agli altri 4 e trovò uno disposto a essere sostituito.
Uscirono dai reticolati verso la mezza, strisciando nel fango come sanguisughe ed erano quasi arrivati alle linee nemiche quando un bengala illuminò a giorno il terreno e la pattuglia fu scoperta.
Colpi di fucile, raffiche di mitragliatrice, esplosioni di mortai, un inferno improvviso che colse gli uomini privi di riparo.
Annibale ordinò di ritirarsi subito e cominciò a correre verso le nostre linee. Ormai mancavano una decina di metri alla salvezza e i nostri sparavano anche loro per coprire i fuggitivi.
Annibale, per un presentimento, si fermò di colpo, si volse e si vide solo; nel fragore degli spari gli sembrò di sentire il grido di un uomo che chiedeva aiuto. Era una voce che conosceva e decise di tornare indietro. A metà strada fra le trincee Nino Terlizzi si dibatteva, comprimendosi il ventre. Fu un attimo e Annibale si chinò, lo caricò sulle spalle e si riavviò verso le nostre linee.
Non poteva correre, per il peso, e allora prese a camminare; stranamente le armi tacquero, forse i nemici si impietosirono nel vedere quell’uomo che, barcollando, portava in salvo un altro uomo.
Annibale non pensava, camminava esausto e non guardava, sentiva solo i richiami dei nostri che lo incoraggiavano e passo dopo passo, nel buio più fitto, aveva chiara la sensazione che ormai era fatta.
– Mancano una decina di metri, Nino. Ce la facciamo.
Ora, ancora tre metri. Ce l’abbiamo fatta, coraggio.
Si accese un bengala e quasi contemporaneamente i mortai ripresero a colpire.
Ci fu una violenta esplosione e Annibale sentì un dolore lancinante al capo, vide una miriade di luci che danzavano davanti a lui, poi tutto si spense e svenne.
– Annibale, caporale Annibale Chiocchetti, svegliatevi!
Credette di essere a casa nel suo letto, ma quel “caporale” gli dava un sentore di caserma.
Provò ad aprire gli occhi, ma questi gli facevano male e vedeva come una nebbia davanti a lui.
– Dove mi trovo?
– All’ospedale da campo.
– Voi chi siete?
– Sono il tenente medico Francesco Angiolieri. Siete stato ferito al termine di un’azione eroica.
– Ferito dove?
Il tenente non rispose
– Dove?
– Una scheggia ha colpito la testa, anzi ha colpito l’occhio sinistro. Ma resta il destro, vedrete bene lo stesso.
– Insomma sono un invalido.
– In un certo senso sì, ma siete anche stato fortunato, perché potevate morire o subire delle amputazioni. Vi capisco, ma resta l’altro occhio e, soprattutto, per voi la guerra è finita.
– E il mio amico, quello che trasportavo?
Il tenente si chinò e iniziò a parlare a voce bassa:
– Ha una brutta ferita, al ventre. Non credo che arriverà a questa sera.
– Dov’è?
– Qua di fianco, nell’altra branda.
– Mi può sentire?
– Penso di sì, se parlate a voce alta.
– Nino, dove sei?
Si sentì come un gorgoglio e in mezzo a questo un qui smorzato.
– Ce l’abbiamo fatta, Nino, amico mio.
Arrivò un sì sfiatato, come di un vecchio mantice tutto perforato.
– Mi posso alzare?
– Perché?
– Vorrei stare accanto a lui.
– Se non avvertite fatica, fate pure.
Più che alzarsi, Annibale si drizzò quel tanto da restare seduto con il busto eretto e si volse verso la branda dell’amico, mentre la nebbia gradualmente spariva.
Poté vederlo alla fine distintamente, un fagottino con il volto terreo e tirato.
– Nino, siamo proprio vicini.
Nessuna risposta.
– Dai, che ci congedano.
– Capora’, il mio è un congedo definitivo e casa mia non la vedo più.
– Ma che dici mai!
– No, capora’, certe cose si sentono; questo fuoco che mi mangia dentro si spegnerà con la mia vita.
– Dai, vedrai che andrà meglio.
– Una cortesia, un grande piacere…
– Sì, dimmi pure.
– Porta una lettera alla mia casa, con i soldi che ho messo da parte. Di te mi fido: mi volevi salvare la vita.
– L’hai scritta ieri?
– Non so scrivere: prima che ti svegliassi me l’ha scritta il dottore.
E nel dire così sfiatò.
– Sì, lo prometto sulla mia vita.
– I soldi sono nel berretto vicino al letto: 5.000 lire. Potranno comprar la legna per l’inverno e tirare avanti per un po’.
– Non dire così; glieli consegneremo insieme.
Non ci fu risposta e Annibale prese la lettera e i soldi.
Dopo un’ora circa Nino entrò in agonia. Mormorava parole incomprensibili, ogni tanto ricorreva un nome femminile, ora quello di un santo.
Si spense all’imbrunire, dopo un ultimo disperato grido: ancora quel nome, Concettina.
Annibale restò all’ospedale da campo fino a Natale, allorché, a seguito di un improvviso attacco dei greci, fu coinvolto nella ritirata che lo portò fino a Valona. Lì trovò una confusione indescrivibile, propria di un’armata in rotta.
Con il sacrificio degli Alpini l’avanzata nemica fu dapprima rallentata, poi fermata del tutto. Eravamo andati per conquistare la Grecia, ma invece avevamo perso anche parte dell’Albania.
Poi ci fu un rapido cambio dei comandanti, l’arrivo di nuove truppe e la notizia che i tedeschi sarebbero venuti a darci una mano.
Con fatica si riconquistarono le posizioni perse, ma alla fine della campagna le nostre truppe riuscirono, a malapena, ad arrivare al vecchio confine.
Intanto Annibale, nonostante avesse fatto richiesta di rimpatrio, non era stato accontentato. I piroscafi disponibili erano pochi e poi lui era considerato un eroe di guerra, da celebrare il giorno della vittoria. Così, nella primavera del 1941, fu prelevato dalla caserma di Valona e trasportato in un piccolo villaggio oltre il confine, un viaggio quello che gli rimase impresso nella memoria.
Appena passata la linea di demarcazione fra Albania e Grecia attraversarono dei piccoli borghi in rovina, disseminati di cadaveri di civili, uomini anziani, donne e bambini.
Chiese e seppe che non era stato un bombardamento, ma la rappresaglia dei tedeschi in risposta alle azioni dei partigiani.
Più si andava avanti, più si vergognava della divisa che portava indosso, di quella guerra in cui pur aveva creduto, ma che ormai conosceva nei suoi orrori e così, quando in una pubblica cerimonia un generale gli appuntò al petto la medaglia di bronzo al valor militare, pianse. Tutti applaudirono, pensando alla commozione, ma nella sua mente si accavallavano le immagini di Nino moribondo e di quei poveri civili massacrati.
Finalmente lo riportarono indietro, assicurandogli il passaggio da Valona a Brindisi nel giro di una decina di giorni.
Appena dimesso dall’ospedale aveva scritto alla moglie per comunicarle la sua mutilazione. Non sapeva come dire e alla fine scrisse solo che sarebbe tornato orbo di un occhio. Non aveva avuto risposta, il che lo angustiava e sperava solo che il ritardo fosse imputabile alla guerra.
Il giorno stesso dell’imbarco sulla nave per il porto di Brindisi gli fu consegnata la lettera che tanto attendeva.
L’aprì con timore e quando lesse “Cosa importa, amore mio, l’importante è che tu torni da me” pianse come un bambino, poi si aggiustò la benda nera che copriva l’occhiaia vuota e sentì chiaramente che, nonostante tutto, malgrado una guerra, lui era un uomo felice.
Il viaggio da Valona a Brindisi, un braccio di mare, fu piuttosto lungo, proprio per evitare i sommergibili inglesi, che già avevano affondato un trasporto truppe, ma poi finalmente arrivò a destinazione. Lì gli diedero il foglio di congedo, gli pagarono le ultime mensilità e un premio di Lire 3.000 per la medaglia di bronzo.
Il ritorno si presentava non facile, anche perché doveva fermarsi vicino a Cerignola.
A Bari arrivò in treno e lì ottenne un passaggio su un vecchio autocarro diretto a Foggia. Da quest’ultima città a Cerignola dovette arrangiarsi del tutto, un po’ a piedi, un po’ ospitato su carri agricoli, ma alla fine arrivò alla meta. Chiese dov’era Contrada Arsa e si rincuorò quando gli risposero che era soli quattro chilometri fuori dal paese.
S’incamminò piano, già sotto il sole di maggio, in mezzo ai campi in cui già il grano cominciava a indorare.
Dopo un’oretta arrivò a un povero casolare che sembrava disabitato. Bussò alla porta e gridò:
– Terlizzi, abita qui la famiglia Terlizzi?
Rispose una voce:
– Avanti.
Entrò e vide la casa del suo amico Nino: solo una grande camera con le pareti annerite dal fumo del camino, una tavola, quattro sedie sgangherate e, sul fondo, dei pagliericci.
Dato che era mezzogiorno c’erano tutti: il fratello sciancato, l’altro scemo, l’altro ancora che sembrava il sosia di Nino, due vecchi disfatti, una donna con un bimbo piccolo in braccio.
– Sono Annibale Chiocchetti, amico di Nino. Devo consegnarvi della roba.
La giovane si alzò:
– Lo sappiamo, ce l’ha detto Nunzio che era con voi in guerra e che è ritornato un mese fa.
Il vecchio si volse verso Nino, con sguardo implorante e gli chiese come era morto il figlio.
Annibale consegnò la lettera alla donna, nonché 8.000 lire, poi rispose:
– Mi ha salvato la vita. Ero rimasto ferito in pattuglia, ma lui è tornato indietro per portarmi al sicuro e gli hanno sparato un colpo solo, in mezzo alla fronte. Credo che non abbia nemmeno sofferto.
– Povero fijo mio, sempre generoso è stato.
Si asciugò le lacrime con la manica della camicia e si appartò in un angolo, sempre mormorando “Povero fijo mio”.
Annibale era imbarazzato e quindi decise di andarsene.
Salutò, corse quasi fuori e già si era incamminato verso Cerignola quando udì una voce.
– Annibale!
Si volse e vide la vedova, con il piccino in braccio.
– Grazie, Annibale. Mio suocero non sa leggere, ma io sì, perché ho fatto tre classi delle elementari.
Insieme alla lettera del Ministro della Guerra che comunicava la morte di Nino ne è arrivata un’altra del suo capitano che ha spiegato quanto tu abbia fatto per salvarlo. Non l’ho letta ai miei suoceri, perché era indirizzata a me. Poi, in questa lettera c’è scritto che ci sono 5.000 lire e invece ne ho trovato 8.000.
– Segno che si è sbagliato, perché a me ne ha date 8.000.
Sentiva un nodo in gola che gli toglieva il respiro e allora decise di uscire da quella situazione che stava diventando insostenibile.
– Devo andare, è lunga la strada del ritorno. Buona fortuna…Scusa, ma non conosco il tuo nome.
– Concettina mi chiamo.
Annibale corse via, mentre le lacrime gli rigavano il volto e sentiva dentro di sé una ferita che nessuna benda avrebbe potuto celare.
(da “Storie di paese”)
Renzo Montagnoli
Un racconto straziante, un grido contro le atrocità di una guerra assurda, come tutte le guerre.
Scritto con la dovizia di particolari storici propria del bravo Montagnoli, in un contesto in cui si mescolano tuoni di guerra e ampi squarci di umanità, l’intera vicenda, e specialmente l’esito finale, non scivola nel facile e pericoloso buonismo, perché non è fatta per commuovere anche se commuove. E’ sempre sorretta da un serio e composto impegno morale di “raccontare” verità e situazioni, anche se atroci, quale memento per il futuro.
In effetti l’attuale diversa impostazione geografica e politica e il laborioso fraterno abbraccio di ex nemici, non potrà totalmente far seppellire, assieme ai tanti morti, anche i ricordi e i drammi vissuti dai nostri padri.
Un bellissimo racconto, questo di Montagnoli, un denso ritratto di un’epoca e un monito severo per il futuro. Per non ricaderci più.
Enzo Maria Lombardo
Cosa vuol dire per il condottiero la morte di un soldato? Null’altro che una spada, una lancia, un fucile, ecc. in meno. Probabilmente farà come quello di Trilussa che vedendo annegare la pecora non gridò “povera pecora”, bensi “povera lana”. Checché se ne dica, è la triste conseguenza dell’evoluzione del selvaggio che gettò le basi della società senza essere in grado di superare, eliminare i suoi istinti predatori anzi cementandoli: “Quello che è mio è mio e quello che è tuo è anche mio”. Migliaia di anni avrebbero dovuto renderci più saggi, ma quale istituzione si prodiga a tal fine? E quale valore assume il dolore dell’umile fuori dal suo ambito ristretto? Solo se la catastrofe raggiunge livelli universali, solo allora anche i grandi “provano” a pensare. Ma non per molto.