Adamo ed Eva nel Paradiso perduto. Nudi, la pelle azzurra, intorno le tenebre incipienti rotte da una luce che assume una forma mostruosa: il Maligno che svolge la sua opera di successo? È un tableau vivant di enorme suggestione: estetica, metafisica.
David LaChapelle, in mostra sino all’11 settembre al MUDEC di Milano, è il maestro dei tableaux vivants, un artista sempre sorprendente, mescolando con sapienza le influenze dell’arte classica (e rinascimentale e barocca) con gli influssi onirico-surrealisti e quelli della contemporaneità tecnologica. Le sue opere stupiscono, anzi, sovente, lasciano senza fiato.
Il lavoro di preparazione deve essere lungo e accurato per giungere a esiti tanto fini e complessi, con un impatto, come detto, potentissimo su sensi e intelletto. Sono visioni, non importa se di matrice sacra o profana; sono sguardi altri, oltre. Studi raffinati, emozionali, un recupero di meravigliosa ancestralità.
“Dove va a finire l’anima? Con questa idea in mente mentre lavoravo nella camera oscura, dipingevo a mano i negativi di immagini figurative che mettevo in scena, usando amici, amanti, ballerini e quelli che mi stavano vicino per raffigurare angeli, santi, martiri e miracoli in un “nuovo mondo”. Sentivo di essere guidato da qualcosa che era al di là di me stesso, e mi convinsi che la fede era assolutamente necessaria per proseguire la mia vita e il mio lavoro”. Un punto di vista, tuttavia, estremamente variegato, mai rigido, un’esplorazione a 360° della realtà interiore, della indicibile realtà interiore, a confronto con ogni manifestazione esterna (o specchio).
Affascinanti gli assemblaggi, gli affastellamenti di oggetti a restituire l’idea del caos, che pure genera armonia, o le sequenze di ritratti, serializzazioni di personalità celebri dalle infinite sfumature, ossimori poetici, spiazzanti (Marilyn Manson, Uma Thurman, Britney Spears, Pamela Anderson, Tupac Shakur, Madonna, Lady Gaga, David Bowie, Eminem, Andy Warhol).
Non manca la riflessione escatologica, la meditazione sul destino finale che passa per la contingenza della società umana, di questa società, nella fattispecie, basata sul consumo sfrenato, sulla produzione dissennata di rifiuti, sull’asservimento alla tecnologia e ai media. Paesaggi industriali dai colori fiabeschi e composizioni floreali/nature morte si fanno incubo. Le città sono sconvolte da incomprensibili apocalissi. Nei cieli acidi volano folle di aerei di cui si indovina il prossimo catastrofico schianto.
Riguardo all’opera Deluge (2006) ecco le parole dell’artista: “L’idea è che la vita stia sostanzialmente volgendo al termine, ma siamo qui ad aiutarci a vicenda in mezzo al caos. È il mio modo di cercare di mostrare la natura umana al suo meglio. Il diluvio è una grande metafora della perdita di tutto ciò che è materiale, della salute, del corpo: è trovarsi sul letto di morte con un’ultima possibilità di illuminazione”. Questo lavoro ha un formato extra, ciò che accresce il senso d’identificazione trascorrendovi innanzi. È una tragedia grandiosa, cui fa da pendant, da seguito, come un riscatto per il disgraziato genere umano, Staircase to Paradise.
LaChapelle non trascura affatto il momento presente, quello che potremmo chiamare lo hic et nunc della storia, come ben rappresentato dal tableau che mostra Venere e Marte dopo l’atto sessuale: “Marte, Dio della guerra, sta dormendo sdraiato sulla sua corazza, mentre Venere, dea dell’amore, sembra insoddisfatta. Le cose non sono cambiate molto, ho pensato. Avidità e guerra da una parte, amore e bellezza dall’altra […] Volevo che Venere rappresentasse l’Africa, un continente le cui risorse naturali sono state – e continuano a essere – violentate e saccheggiate”.
Proseguendo nell’itinerario dell’esposizione ci si imbatte nella figura del Cristo in un supermercato – i mercanti nel tempio… – una ieraticità fissa, atemporale e pure non ignorabile, che si replica in tableaux che riproducono una probabile prostituta e due poliziotti, un’Ultima Cena rap/gangsta, una lavanda dei piedi dalla parvenza erotica (occorre andare oltre l’apparenza, che è un vero inganno). Magnifica poi l’Annunciazione a una languida e struggente Madonna nera. E, ancora, incursioni critiche sul terreno dell’ambiente, ovvero la sacra terra e il suo manto d’aria profanati dall’incuria, naufragi, rivelazioni, la giungla che invade una stazione di servizio illuminata artificialmente a giorno – uno spettacolo allucinatorio – distorsioni e altre nature morte, un Cristo crocifisso a un albero tropicale (petali di fiore come sangue che stilla).
Davvero ogni mostra di LaChapelle è una festa per i sensi e un’offerta alla mente di infiniti pensieri.
Citiamo le parole dei curatori nel testo del catalogo: “David LaChapelle intraprende questo viaggio verso una dimensione più profonda e spirituale già a partire dagli anni ’80 e, nel corso della sua carriera, ha sempre saputo rinnovarsi attraverso linguaggi e liturgie figlie del nostro tempo, mantenendo uno stile riconoscibile. Un marchio di fabbrica che ha a che fare con una dimensione onirica e surreale. […] Il percorso espositivo non ha, volutamente, un andamento lineare, perché il display si riferisce a un continuo e coerente intreccio di tematiche tra loro correlate. È un continuo entrare e uscire dalle contraddizioni della nostra esistenza: dal miracolo desiderato all’inferno della contemporaneità”.
Alberto Figliolia
David LaChapelle. I believe in miracles. Una mostra 24 ORE Cultura. A cura di Denis Curti e Reiner Opoku. MUDEC, via Tortona 56, Milano. Sino all’11 settembre 2022.
Info: tel. 0254917 (lun-ven 10-17), siti Internet (e prenotazioni) www.mudec.it e www.ticket24ore.it.
Orari: lun 14,30‐19,30; mar, mer, ven e dom 9,30-19,30; gio e sab 9,30-22,30.
Biglietti: intero € 15 | ridotto € 13 (il servizio di biglietteria termina un’ora prima della chiusura).