Se fossi un destriero che le calde stalle di una dacia nella profonda steppa a ridosso degli Urali albergano, avrei fatto risuonare il mio nitrito per essere lasciato libero di galoppare avvolto in un turbine nevoso sollevato dagli zoccoli che affondano nella massa bianca, polverosa, testimoni del mio passaggio. Dalle narici fumanti avrei regalato al mondo l’impeto del mio cuore che sprona i potenti garretti in un galoppo sfrenato che mi porta lontano, al confine della boscaglia di abeti imbiancati.
Quante volte ho sognato la mia criniera svolazzare al vento, con le orecchie piegate e la testa tesa, raggiungere, sorpassare il vento che lambisce i miei fianchi poderosi. Ritornare maestoso al trotto scuotendo la testa, impennandomi, sgroppando, infilando il muso nella neve fresca per gustare l’erbette dolci che in essa si nascondono. Stallone indomito e focoso dal manto nero cupo, la fronte bianca stellata e dalle rosse narici, che nel branco si prodiga, corteggia, amoreggia, genera, mai stanco dà il tono.
Ma sono un uomo.
Un uomo forse ormai come sotto le spoglie di un asinello bigio che trasporta sulla groppa fascine secche alla cascina e che saranno bruciate per alimentare la fiamma di un umile focolare o il forno della cucina.
La mia stalla non è quella di una dacia.
Essa è racchiusa da pietre nude incastrate l’una sull’altra, che il sibilo della tramontana ghiacciata attraversa nella notte. Il tetto che mi copre è fatto di arbusti intrecciati che dopo aver perso il fogliame lasciano che la pioggia si riversi sulla mia groppa. Non posseggo una gualdrappa o un arcione coperto dal vello di montone su cui maestoso prende posto il cavaliere principe o l’affascinante damigella spronando o frenando con il morso il mio impeto al tiro delle redini. Non ho un branco di stupende purosangue che si prodigano per accoppiarsi con me. Nemmeno una compagna della mia stessa razza mi degna del suo sguardo, mi rivolge la sua attenzione. Il mio padrone segue a piedi poggiandosi a un bastone con il quale spesso mi colpisce per accelerare i miei passi. Egli calca il suolo col suo piede pesante, sollevando gli scarponi chiodati del contadino di collina tra i campi aridi, pietrosi, che veste abiti dimessi e sul capo un cappello ormai bisunto sul quale la pioggia scivola.
Io non corro.
Avanzo spesso a fatica conscio che deposto il carico dovrò affrontare nuovi sentieri, trasportare nuovi pesi. E la sera quando ormai il sole è sparito da un pezzo, assolvendo l’ultimo viaggio, la fatica è tanta che le mie lunghe orecchie non stanno più dritte ma si adagiano come volessero posarsi al suolo, riposare. Non ho più voglia di salutare i miei simili con un raglio e quasi a testa china mi avvio alla stalla, sperando trovare nella greppia della paglia e forse un poco di fieno.
Solo quando nelle stagioni miti, libero di vagare nella notte per le colline e di strappare i teneri germi dei cespugli che ritornano a vita, solo allora anche se devo nutrirmi parcamente mi sento libero, ritrovo me stesso.
E al mattino, quando il sole roseo si affaccia all’orizzonte risvegliando il mondo alla vita, non posso non rispondergli sollevando la coda e fissandolo con testa e orecchie tese e con la bocca spalancata inviargli il mio saluto, emettere un raglio poderoso che risuona cinque, dieci volte, ripetuto dall’eco delle valli fin quando fievole viene inghiottito da una di esse.
Eppure sono un uomo.
I miei capelli sono tinti di grigio come il vello dell’asino. I miei passi cominciano ad essere pesanti, le mie gambe cercano di evitare viottoli e cammini troppo impervi. Non mi segue nessuno con in mano la frusta o il bastone per farmi avanzare.
Mi segue la vita.
A lei non serve incitarmi, colpirmi. Sa che un giorno sarà stanca come me, si fermerà assieme a me.
Ieri era quella di un destriero sempre pronto al galoppo alla sfida, alla gara con la folta coda e la ricca criniera scosse dal vento per conquistare la vittoria, ora tiene il passo pesante del contadino che si avvia a chiudere la sua giornata di fatica.
Accanto ai muri che costeggiano i sentieri che percorro vedo tante altre vite che mi osservano con indifferenza passando veloci accanto a me. Vorrei parlare con loro, dirle, raccontar loro il mio passato, il brutto e il bello che ho vissuto. Ma esse non si attardano, non hanno tempo, sono incalzate, sono smarrite.
Se io ero un destriero che spronato galoppava indomito verso uno dei tanti traguardi, molte di queste vite, troppe, corrono senza un fine, s’incrociano senza salutarsi, senza vedersi, muso a muso non si scorgono, vorticano, si accalcano, perdono il cammino, ritornano sui propri passi, stanche, sfiduciate incapaci di seguire la bussola della speranza, della fiducia o della sfida, sperando in qualcuno che offra loro un poco di fieno nella greppia.
Corrado S. Magro