1. Grande Poeta da riscoprire
Clemente Rebora, un grande poeta da riscoprire, ” un autore ancora per pochi”, diceva Giovanni Raboni. E se ne rammaricava.
Quei pochi sono coloro che non hanno un’ideologia dichiarata, ma contenuta, “come un oggetto”Ad esempio, la poesia di Pasolini sta all’opposto, e dice soprattutto ciò che dice; non è un vero discorso poetico, ma ideologico . Quello di Rebora è invece “polisemia” della grande lirica.
Teso al cielo per il quale è fatto, ma legato alla terra, il poeta è un’allodola che canta l’elegia dello schiavo consapevole. E ogni slancio verso il cielo della felicità pare destinato a ricadere dolorosamente al suolo: “O allodola, a un tenue filo avvinta, schiavo richiamo delle libere in volo, come in un trillo fai per incielarti strappata al suolo agiti invano l’ali”.
2. L’amore pareva cosa umana
Le parole della sua poesia continuano a significare qualcosa che hanno già significato prima, segnate come sono, anzi“deformate” da un uso anteriore, tratto che si trova, peraltro , nello stesso eccellente poeta milanese da poco scomparso. Ed allora eccoci ancora una volta a rifare le gerarchie letterarie del novecento, a ridipingere,” nella penombra della fiamma”, un passato leggendario che non è mai esistito veramente come lo raccontiamo, o come ce l’hanno fatto credere, un passato in cu i ” l’amore – scriveva Rebora – “ pareva cosa umana” e la natura faceva dolce corteggio al passaggio lieve di un’umanità in pace.
I sensi “facevan le fusa, e zampilli i pensieri“, mentre i suoni degli animali, e il vento con le piante, e il mare con l’ onda lunga di risacca, si armonizzavano in un “misterioso concento”. Ma quella vita in cui il mare andava incontro alle notti e gli alberi erano fatti d’aria, e la luna si scioglieva nel sereno, e tutte le ragazze erano più belle, gli uomini miti, i bambini giocavano felici, e le rose dell’aria fiorivano nelle strade, era una invenzione della nostra fantasia; era lontano, solitario e crudele, qualcosa di sottilmente minaccioso. Era il doppiofondo della notte, la luce “inesplosa” del Sottotenente Clemente Rebora che sta sul Carso, in attesa dell’annullamento di se stesso, purchè finisca la guerra. Che venga pure una pallottola e lo colpisca al cuore. Non ne può più di stare come i topi in attesa che tutto affondi.
3. Sgranavo gli occhi a ogni guizzo
Viene ferito alla tempia dallo scoppio di una granata e ne rimarrà per sempre segnato. Lui sa, ha sempre saputo che, sotterrato sotto un suolo di paradiso, c’è un inferno di metallo e di morte, che aspetta gli uomini incoscienti per donare loro le sue fiamme devastatrici e la morte. E con quella infausta guerra fu ancora strage degli innocenti, il primo frutto portato dall’Incarnazione di Dio. Questo l’avrebbe ricordato molto più in là, Clemente, al momento dell’innamoramento di Cristo:…ammiccando l’enigma del finito / sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, / dentro gemevo, senza Cristo.
Augusto Benemeglio