Cinema: Che fine ha fatto Baby Jane? di Robert Aldrich


Recensione film “Che fine ha fatto Baby Jane?” di Robert Aldrich

Dramma psicologico granguignolesco basato sul romanzo di Henry Farrel. L’intro, 1917, consegna l’immagine di Baby Jane Hudson intenta nell’esecuzione del suo numero di canto e ballo da bimba prodigio. Incoronata da boccoli biondi, fluenti, gestisce con padronanza un pubblico adorante. Il padre manager la venera curando il suo merchandising: bambole create a sua immagine e somiglianza. Jane è una fanciulla capricciosa, viziata, arrogante, petulante, dopo lo spettacolo esige il suo gelato ignorando gli ammiratori mentre la sorella Blanche soffre reclusa nella sua situazione subalterna.
Balzo nel tempo, anni trenta. Jane è un’attrice in declino ingaggiata dalla casa di produzione per intercessione della sorella, diva di Hollywood, che ha acquistato la casa di Rodolfo Valentino. Jane annega nella sua dipendenza dall’alcol.
Un incidente dinnanzi al cancello della villa: sull’agghiacciante immagine della bambola, rotta, alter ego di Jane infante, vengono dipanati i titoli di testa. “WHAT EVER HAPPENED TO BABY JANE?”. “Ieri” decreta l’inizio della pellicola.
Le due sorelle vivono insieme, Blanche vittima dell’incidente è paralizzata, trascina la propria esistenza nostalgica su una sedia a rotelle assistita da Jane, psicologicamente disturbata e ormai mantenuta dalla sorella, è avvinta all’alcol che demolisce ogni giorno il suo piccolo barlume di lucidità. Per l’opinione pubblica Jane è l’artefice dell’incidente, povera fallita, invidiosa, vinta dai fumi della dipendenza, aveva cercato di eliminarla.
Nella sua maschera di bimba putrefatta sopprime Blanche verbalmente, emotivamente, gettando nell’immondizia le lettere dei suoi ammiratori dopo la proiezione televisiva dell’antico capolavoro “L’ULTIMA LUNA DI MIELE”, uccide il suo uccellino e glielo serve in un’orgia di odio e sfida sul vassoio del pranzo. L’esponenziale interpretazione schizofrenica di Bette raggiunge il suo culmine nell’imitazione della sorella al telefono mentre cerca di convincere il droghiere per l’ennesima consegna di gin e whisky. Gli occhi circumnavigano beffardi, ironici, la propria orbita, nella contraffazione vocale della sua fonte di odio.
La follia alimentata dall’alcolismo inoltra lo spettatore in una pièce teatrale manicomiale, struggente, decadente, pietosa: Jane traspone la sua mente nel sosia giocattolo, ben curato, composto sulla sedia, sente la sua canzone riecheggiare “I’ve written a letter to daddy”, cinge l’attimo con la voce, canta, ricalca le coreografie vetuste, ma la luce si stempera, si scorge allo specchio con i boccoli, il vestito candido fanciullesco, e prende a urlare, sempre con maggior vigore, atterrita da se stessa.
Il campanello della sorella invalida suona incessante, chiamandola dal secondo piano, il volto di Jane incede in una metamorfosi grottesca, inconvertibile, trucco colante, cera fusa, dolore e martirio materializzato.
Blanche risiede nel suo ruolo “definitivo” di vittima combattiva e comprensiva. Cerca, nonostante i soprusi, di instaurare un dialogo con la sorella perduta nel delirio di un tempo stellato, ove si ergeva oltre, nel successo, nella gloria del suo talento bambinesco, epoca dorata infusa di affetto paterno. La piccola diva intrappolata nel corpo anziano ingaggia un pianista debosciato in cerca di facile fortuna, mantenuto dalla madre, per inscenare il suo spettacolo.
Cerca una resurrezione impossibile oltre l’oblio di quella villa riecheggiante di feste hollywoodiane, oltre i successi della sorella attrice divina negli anni trenta, entrata nell’olimpo dell’eternità cinematografica. Il pianista colluso, fallito, completamente ubriaco, stupra emotivamente la bambola “Baby” usando la carrozzina di Blanche nel dismorfismo emotivo di Jane ridotta ad una maschera tragicomica.
Le porte del baratro si aprono con l’efferato omicidio della cameriera Elvira che cerca, coraggiosamente, di liberare Blanche oramai legata e imbavagliata al letto. Precipitata nel suo cosmo alienato, Jane si commisera nel fondo di una bottiglia, avvolta nell’oscurità dei vecchi ritagli di giornale conservati in appositi inserti.
La macchina da presa indugia dall’esterno e come dei voyeur scorgiamo Jane che trasporta Blanche dalla villa per fuggire al mare e riprendere il proprio sogno interrotto nell’infanzia: la beatitudine del sole, dei giochi, dei gelati. Riversa oramai inerme sulla sabbia, nella coperta sudario, Blanche decide di confessare la verità su quella notte, sull’incidente, di confrontarsi con i demoni che deturpano la mente della sventurata sorella. L’esistenza defraudata da una fandonia, la sua parola veritiera di Divina contro l’assenza di ricordo di una pazza. “Se io muoio tu resterai sola…” incede Blanche nella richiesta d’aiuto.
Guidava lei quella notte, Jane annichilita dall’ebrezza durante la serata era stata feroce con la sorella, scimmiottando le sue gesta gli astanti avevano riso copiosamente di Blanche. Jane scende per aprire il cancello, fortunosamente riesce a scansarsi dalla macchina guidata dalla sorella che cerca di investirla. Il pilastro contro cui si schianta le spacca la spina dorsale, Blanche si trascina fuori dalla macchina fino al cancello mentre Jane fugge, confusa, lontano, rimuovendo l’accaduto con un partner sconosciuto in un motel.
Baby viene defraudata della sua vita, colpevole di un gesto non compiuto, da vittima a carnefice. Jane gioca con la sabbia mentre la sorella le rivela l’orrore, sembra non prestare attenzione, è regredita al suo stato preferito. Un barlume di raziocinio e comprende “In altre parole in tutti questi anni avremmo potuto essere amiche”. Jane si reca al chiosco per prendere il gelato, come quando erano piccole ed era lei a sostenere la famiglia, era lei a pagarlo alla sorella col denaro guadagnato con i suoi spettacoli.
La polizia le sta cercando, i giornali, la radio, raccontano il loro dramma familiare. Finalmente le luci della ribalta si sono riaccese per entrambe: Jane vede la folla accalcarsi attorno a lei ed agli agenti. I due gelati alla fragola stanno sciogliendosi nelle sue mani. Sorride. Vede in quei curiosi il suo pubblico. Comincia a ballare. Rotea su se stessa, felice. Nei pressi giace il corpo di Blanche inerme. La ripresa dall’alto fissa l’immagine terminale delle due vite.
L’interpretazione di Joan Crawford si ispira agli “occhi tristi” dei quadri di Margaret e Walter Keane di cui era grande collezionista. Bette Davis è stata nominata agli oscar per la sua interpretazione, vinta invece da Anne Bancroft per l’interpretazione di “Anna dei miracoli”. Nel libro BETTE AND JOAN: THE DIVINE FEUD viene sviscerato il loro rapporto incentrato sull’odio tanto che Joan si rese disponibile ad accettare il premio al posto di Anne, impossibilitata fisicamente, solo per vedere la sconfitta della rivale e dirle dietro le quinte, toccandole una spalla “Mi scusi ho un oscar da accettare”.
La loro rivalità ha certamente contribuito ad esasperare la veridicità di talune scene come quella in cui Jane si accanisce sul corpo riverso di Blanche, un impeto furioso. Definito talvolta erroneamente horror racchiude e consegna a numerose repliche i dettami del thriller psicologico: l’incalzante precipitazione degli eventi ricalca la degenerazione della mente paranoide e psicotica di Jane, la bambola animata dal ricordo della propria padrona, piani sequenza che incalzano sulla demolizione estetica di Baby Hudson, quel cuoricino dipinto sulla guancia che pare vibrare gonfio di ira.
Questo film sviscera egregiamente la dicotomia esistente in ogni individuo intrappolato nel ricordo: il rimorso di non aver eccelso per sempre nelle proprie virtù, il vittimismo in un mondo incapace di comprendere il talento, il rifugio nell’allucinazione alcolica come scappatoia da un’insostenibile realtà infima, degradante.
La location volutamente claustrofobica riverbera la chiusura al mondo delle due protagoniste scisse da una scala che viene percorsa con ribrezzo da Jane ogni qual volta quel campanello assordante le ricorda la presenza, inaccettabile, della sorella, percorsa invece da Blanche una sola volta, quando disperata, senza il telefono staccatole in camera, si aggrappa alla ringhiera e scende per contattare il dottore in cerca di aiuto.
Gli esterni esigui esaltano ulteriormente la condizione pietosa di Jane convinta che qualcuno possa intravedere la bimba prodigio nel suo volto distrutto dalla vita. Tranne Elvira, la cameriera, e il dottore, gli altri protagonisti, particolarmente Edwin Flagg il pianista, assecondano invece pietosamente lo squallore in cui Jane è caduta: uno specchio in cui lei non riesce a rispecchiarsi precipitata oramai nel il suo sogno di applausi sulle note di “Non scambierei il mio papà”, “È la cocca di qualcuno”. L’inferno di una fine annunciata è proiettata nei volti delle due protagoniste,come se infondo fossero necessari solo i loro occhi per documentare il soggetto.

A cura di Chiara

Titolo originale : What Ever Happened to Baby Jane?
Paese di produzione: USA
Anno: 1962
Durata: 134 min
Colore: B/N
Genere: Thriller psicologico
Regia: Robert Aldrich
Sceneggiatura: Lukas Heller
Soggetto: Henry Farrell
Fotografia: Ernest Haller
Scenografia: William Glasgow
Montaggio: Michael Luciano
Musiche: Jack Solomon

INTERPRETI

Bette Davis: Jane Hudson
Joan Crawford: Blanche Hudson
Maidie Norman: Elvira Stitt
Victor Buono: Edwin Flagg
Anna Lee: Mrs Baters
Marjorie Bennet: Dehlia Flagg
Barbara Davis Hyman: Mrs Bates
Wesley Addy: Marty Mc Donald
Julie Allred: Jane Hudson nel 1917
Gina Gillespie: Blanche Hudosn 1917

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