ArteRecensione: Argentina. Quel che la notte racconta al giorno


Argentina. Quel che la notte racconta al giorno. Dove notte si può intendere in senso onirico, quindi sostanzialmente nella sfera della normalità quotidiana, ma anche, se non soprattutto, in relazione ai mali e travagli che hanno afflitto il grande Paese del Sud-America negli anni della dittatura militare. Un trauma collettivo forse ancora non digerito – il fantasma dei desaparecidos, lo spettro dei bambini strappati alle madri torturate/scomparse e “riassegnati” alle famiglie dei carnefici, dei complici o dei collusi… E ora in seguito alle recenti elezioni presidenziali aleggiano la minaccia e il pericolo di un trionfale ritorno a una logica iperliberista, quella che per il solito lascia indietro i poveri, gli ultimi, i diseredati (e sono tanti, troppi…).
Anche di questi temi si nutre la sensibilità collettiva argentina e, in particolare, la coscienza degli artisti che operano a Buenos Aires e sterminati dintorni. Un titolo quindi, quello della mostra in corso al PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea (via Palestro 14, Milano-M1 Palestro) sino all’11 febbraio 2024 (a cura di Andrés Duprat e Diego Sileo; info: pacmilano.it). “Installazioni, fotografie, video e performances di 22 artisti argentini indagano le forme di espressione di un Paese ricco di contraddizioni, una storia che il giorno non conosce e che la notte deve raccontare.”
Non può mancare Lucio Fontana né Leandro Erlich, ma sono tanti gli artisti dal grande sguardo e meritevoli di ammirata attenzione, in quanto suscitatori di pensiero, e diverse le generazioni che si alternano e si integrano con esiti sempre magnifici.
Matías Duville (1974; Mar del Plata) è presente con una nuova versione, site-specific per il cortile del PAC, dell’installazione Precipitar una especie (Precipitare una specie), vale a dire un tubo immenso, in qualche parte arrugginito, piegato e con pietre che lo schiacciano in alcuni punti, da cui fuoriescono un cactus e un pino: ne scaturisce una sorta di alienità, di logica del doppio o dei contrasti.
Di Léon Ferrari (1920-2013, Buenos Aires) è esposta La civilización occidental y cristiana, un Cristo crocifisso su un aereo da guerra nordamericano. Un’opera che nel 1965 denunciava la violenza dell’Occidente, la guerra in Vietnam. “Credo che la nostra civiltà stia raggiungendo il più avanzato grado di barbarie mai registrato”, aveva dichiarato l’artista. Gli ultimi anni gli stanno dando ulteriormente ragione. Un lavoro squisitamente politico, immediatamente fruibile, diretto, senza troppe mediazioni.
Alessandra Sanguinetti (1968, New York) invece indaga nella sua serie fotografica En el sexto día il rapporto fra gli esseri umani e gli altri esseri viventi, ergo la violenza sugli animali, qui raffigurati morti o prossimi alla morte: sangue e occhi sbarrati sull’abisso.
Adrián Villar Rojas (1980, Rosario) compone una natura morta con un freezer spalancato in cui giacciono degli alimenti. “Il riferimento è alla precarietà della vita e al percorso irreversibile verso il degrado”. S’indaga qui anche il rapporto con gli oggetti della tecnologia ed è più che palese la critica alla società dei consumi.
Geniale l’installazione di Adriana Bustos (1968, Bahia Banca): La videoinstallazione Ceremonia Nacional consta di un dittico di schermi sui cui scorrono rispettivamente le immagini delle inaugurazioni dei Mondiali ’78 in Argentina e delle Olimpiadi ’36 di Berlino. Dittatura e, nella sua più negativa accezione, sport, quale instrumentum regni. Impressionante la conformità (e il conformismo) “tra i modelli propagandistici di entrambi i governi, che utilizzano le medesime modalità formali e comunicative.”
Monumentale è Nuestra estrella se agotó di Eduardo Basualdo (1977, Buenos Aires): un nero magma apocalittico: eruzione vulcanica? L’effetto di un meteorite precipitato? O un olocausto nucleare? Corpi carbonizzati, irriconoscibili, mere e grottesche parvenze.
Bocanada di Graciela Sacco (1956-2017, Rosario) è una interminabile immagine di bocche, come a evocare “tematiche sociali complesse come la fame, i migranti gli emarginati”: inquietante, una richiesta d’aiuto quasi disperata, un bisogno che s’indovina insoluto.
Un’esposizione che lancia e lascia suggestioni infinite e un’importante materia di meditazione sul nostro essere in quanto cittadini del mondo e in quanto specie.

Alberto Figliolia

 

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