di Mario Ughi
Mentre cammina lungo il molo del Porto Mediceo sente come una musica nascere dal profondo del cuore. O magari non è così: dal fondo del cuore è una frase fatta, un luogo comune, non riesce a spiegare un improvviso moto dell’anima, al massimo può banalizzarlo, rendendolo simile a una battuta di un film di terz’ordine.
E invece la sensazione che prova è un qualcosa di indefinibile, ma genuino, inaspettato e forte come la corrente del mare innalzata dalla luna e sospinta dal vento, come uno scroscio di pioggia imprevisto e violento, ma a suo modo naturale e stranamente, dolce.
Prova un sentimento che sembra voglia travolgerlo, annientarlo, e dopo un primo attimo di esaltazione attonita, Antonio inizia a preoccuparsi. Non si è mai sentito così. L’emozione che lo assale è talmente forte da togliere il fiato. Si ferma, cercando di regolarizzare il respiro. Inspira piano, tremando contro il vento freddo della sera. Espira ad occhi chiusi. La sensazione pare attenuarsi, poi torna più forte, come un’onda di marea. Antonio adesso è davvero spaventato. Pensa che forse sta per morire. Ma continua a respirare.
Piega la testa da un lato. Non è una musica, capisce, ciò che lo sommerge, ma semmai l’esatto contrario.
Il silenzio.
Con uno sforzo di volontà, continua a tenere gli occhi chiusi, e ascolta.
Non c’è più il suono delle onde che regolari battono sul muro a picco del molo, non volano i richiami dei gabbiani, è svanito il rombo sordo dei possenti motori del traghetto ormeggiato poco lontano.
In compenso, avverte con nitidezza mai provata i contorni del proprio corpo, come se una leggera corrente elettrica ne definisse con estrema precisione i confini. E questi confini, di colpo, scompaiono.
Antonio trattiene il respiro. Ha paura, ma vuole provare questa cosa fino in fondo. Ovunque voglia portarlo. L’emozione più incredibile in tutta la sua vita. Vuole trovare il coraggio per affrontarla.
Neanche si accorge di aver ripreso a respirare, mentre sente il suo corpo dilatarsi oltre i contorni consueti. Come una bolla che si espande. Acqua che trabocca dall’orlo del vaso. Un fiume che rompe gli argini.
E’ l’inizio del viaggio, pensa, e di questo si stupisce.
Come se una voce interiore lo guidasse, Antonio lascia cadere ogni resistenza. Volta la faccia contro il vento, alza le braccia a croce, i palmi delle mani verso l’alto, e nel completo silenzio il suo corpo si scioglie in mille refoli che dapprima si agitano come serpenti mantenendo la sagoma della sua figura, e poi volano in infinite e lontane direzioni.
Uno scatto improvviso, lieve come un battere di ciglia, e Antonio è l’occhio del gabbiano. Le ali sono tese e nella loro particolare inclinazione fendono il vento sorreggendo senza sforzo il corpo affusolato, così come un antico insegnamento prevede. Naturale, l’incontro di due forze si annulla. L’esaltazione del gabbiano è simile allo sbocciare di un fiore, al crescere dell’erba, al maturare di un frutto. Inevitabile, immensa e senza fine la forza che lo guida.
Un breve senso di vertigine, l’inizio di una caduta, e Antonio è l’onda che batte sul molo. Infinita nel suo continuo ricrearsi, senza tempo nel suo moto continuo, batte lieve sulla parete di cemento, sciogliendosi, si riforma e torna a colpire. L’incessante movimento è l’essenza della gioia pura, inarrestabile, un gesto senza interruzione di amore privo di condizioni, come l’uomo dentro una donna, l’ape sopra un fiore, l’innesto della galassia nella sua spirale. L’eterno ritorno.
Non vede queste cose, Antonio, ma le vive.
Vola come una brezza lungo scogliere imbiancate dal sole, e dal sale. Affonda nella terra a cercare nutrimento come le radici di un albero secolare, con la stessa pazienza e col medesimo tempo a disposizione. Vibra dell’energia che spinge senza sosta l’universo oltre le proprie barriere.
Ogni luogo e ogni suono e ogni emozione creata e poi morta e rifiorita a nuova vita, sono in lui, sono lui, nell’istante preciso in cui, di nuovo, sente il respiro attraversargli la gola, riempire i polmoni con violenza e un senso quasi di dolore. Apre gli occhi.
Da una macchina posteggiata poco lontano due facce lo guardano piene di curiosità. Il grande traghetto sta mollando gli ormeggi. Il vento è calato, e i gabbiani si sono spostati verso la città, ai luoghi scelti per la notte.
Antonio fruga nelle tasche, si accende una sigaretta. Volge uno sguardo distratto all’orizzonte nascosto dalla notte. La lampada di una boa, lontana, ondeggia lentamente.
Con calma, riprende a camminare.
Mentre cerca di ricordare dove ha posteggiato l’automobile, la consueta quotidianità dei pensieri torna a svilupparsi e viaggiare lungo i familiari, abituali sentieri.
Riordina le idee intorno alle cena che dovrà preparare, valutando se magari sarà il caso di ordinare una pizza. Una mezz’ora di slalom attraverso i tediosi canali della televisione. Una doccia prima di andare a letto, forse due righe da un libro.
Cammina senza fretta, Antonio. A casa non c’è nessuno.
Tratto da: Livorno – Cronache immaginarie
Mario Ughi
Antonio subisce un evento raro, anche se possibile, di estensione del proprio io verso il tutto, senza necessità di meditazione o di introspezione particolare: un evento spontaneo che prima lo atterrisce e poi, per la sua particolarità, lo incuriosisce e forse lo diverte, fino a farlo pervenire alle soglie della pura gioia di sentirsi finalmente parte del mondo, poter vedere con gli occhi di un gabbiano, battere in sintonia con il cuore del mare. Una meravigliosa parentesi dalla sua quotidianità e dalla angosciosa solitudine in cui è destinato a rientrare.
Strana e bella pagina di acuta introspezione di uno stato di coscienza liberato dagli orpelli di una realtà spesso opprimente, propria delle dottrine Zen, scritta con la maestria di chi sa ben raccontare sottili sensazioni oltre che fatti.
Complimenti all’Autore.
E.M.L.