Anonimo 1


di Mario Ughi

La prima cosa veramente personale che ha perduto, quando le vicissitudini della vita lo hanno catapultato a vivere per strada, è il cognome.
Senza più una casa, privato dell’automobile, nessun recapito postale e la moglie svanita chissà dove, all’improvviso e nel modo più completo il suo cognome smette di avere un senso e una qualche utilità. Un orpello del passato, per quanto ancora recente. Non gli serve più.
Ci ha pensato a lungo, nei primi giorni, cercando di capire che cosa questo potesse significare per lui. Ma non è mai riuscito ad andare oltre a una vaga sensazione di vuoto stupore. Per anni si è identificato con quello che si potrebbe definire un marchio di fabbrica, l’appartenenza a una famiglia, considerando la propria esistenza come il frutto ultimo di una lunga discendenza che si perde nel mare infinito del tempo passato, dove in qualche luogo il suo cognome è stato inventato e attribuito per un qualsiasi motivo a distinguere una persona precisa, che arriva in quel modo a occupare un suo spazio nel mondo. Ad avere uno scopo. E da quel momento in poi, sia che lo avesse portato con orgoglio o insofferenza, quel cognome stava a significare la sua stessa esistenza.
Su quel cognome sono stati stabiliti dei patti, si sono create e rotte amicizie e alleanze, edificati matrimoni e commemorate memorie e morti. Sono stati firmati documenti che ottenevano valore soltanto in forza del cognome stilato a fondo pagina, senza il quale diventavano inutili fogli macchiati di inchiostro. E adesso, almeno per lui, perdeva valore e sostanza.
Il senso di stupore lo ha accompagnato per alcuni mesi, mentre vagando per strade sempre più fredde e ostili cercava di mantenere intatta un’immagine di sé che si faceva rarefatta e distante. Ma non c’erano carte da firmare, documenti da esibire, bollette del gas o multe da pagare. E pian piano, superando con fatica lunghe giornate affogate di sole o annegate di pioggia, la questione ha perso di significato. Del resto, stava iniziando a imparare che quanto non gli serve per soddisfare le prime necessità diventa un peso inutile da portarsi appresso.
Il suo cognome è affondato nel placido mare di un pomeriggio autunnale, insieme a una grossa conchiglia trovata per caso sulla spiaggia pietrosa di fianco all’Accademia navale. Un lancio perfetto. Alcune navi lontane stavano a guardare silenziose, giusto per ingannare l’attesa del permesso di entrare in porto.
Con la perdita del cognome, quasi per una forma di risarcimento, conquista una maggiore libertà. Ma la sua memoria non torna mai a visitare il passato, rimanendo sulla soglia dell’attimo appena trascorso, e non arriva a notare questa diversità di condizione. Non si stupisce quindi di considerare sempre più naturale e meno doloroso il dormire tra le rovine delle Terme del Corallo, o sotto l’incerato di qualche barca ormeggiata lungo i fossi. Ha imparato a ignorare e lasciar andare quanto non è indispensabile alla sopravvivenza, soprattutto le emozioni. Tra queste la prima è stata l’autocommiserazione, che stranamente si è trasformata in una forma di quieta spavalderia. Non prova rancore per le disavventure che possono capitargli durante la lunga giornata, o soprattutto quando fa buio. Prende atto, e basta. Così, adesso si astiene dal passare la notte alle Terme del Corallo, dopo l’aggressione subìta per solo rubargli le scarpe. Evita anche le barche lungo i fossi, da quando uno dei proprietari lo ha affrontato armato di bastone. In quell’occasione si è limitato ad allontanarsi senza una parola, e senza risentimento. Soltanto uno sguardo di rammarico, di fronte a tanta violenza: mica la stava mangiando, quella barca.
Conduce una navigazione solitaria per le vie della città. Nessuno lo cerca, nessuno lo chiama, nessuno ha qualcosa da dirgli. Col passare del tempo, nella totale mancanza di interlocutori, è arrivato persino a dimenticarsi il proprio nome. Forse questo non è esatto: diciamo allora che non ci pensa mai. Un altro elemento del passato di cui ha perduto la memoria. Dovrebbe fare uno sforzo, per rammentare se un tempo qualcuno lo chiamava Giacomo, o Giovanni. Sorride e pensa: In fondo, che cos’è un nome?
Potrebbe sembrare strano, ma affrontare la giornata e le battaglie quotidiane senza doversi portare appresso il nome, è qualcosa che lo aiuta a sopravvivere. Gli consente di concentrarsi soltanto sulle strategie di avvicinamento, diciamo in forma anonima, per la conquista dei pochi spiccioli che a fatica riesce a sfilare dall’egoismo altrui. Un modo per annullare la vergogna. Non ha un nome da offrire, o meglio da esibire, ma soltanto la sua faccia. E il bisogno che ognuno può trovarvi dipinto sopra.
Ogni tanto si ferma all’angolo di una strada, e osserva con occhi sereni il mondo che gli scorre davanti, frettoloso e affannato, inquieto e proiettato verso qualcosa. Lui guarda tutto questo agitarsi e correre con il sorriso di chi non ha niente da chiedere e accetta con serenità quanto la giornata voglia portargli.
Poi riprende il cammino.
Libero dal passato e svincolato dalle preoccupazioni per il futuro, vive un perpetuo presente, senza nome, dove basta mettere un passo dopo l’altro, ripercorrendo avanti e indietro le migliaia di chilometri consumati tre le strade della città.

Tratto da: Livorno – Cronache immaginarie
Mario Ughi

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Un commento su “Anonimo

  • Corrado S. Magro

    Una diapositiva dell’anonimo, forse visto dal’esterno, con tocchi che mettono in risalto il processo che gli ha permesso di liberarsi della zavorra. Guardato dall’alto egli si lascia trasportare dalle correnti, sembra non soffrire un travaglio, quasi esente dal bisogno di soddisfare quello che gli manca per continuare a sopravvivere.