A cura di Arturo Casalati
Alexandre Grothendietck era una delle menti matematiche più brillanti del Novecento. Da oltre vent’anni viveva isolato, nel segreto e nel silenzio, in un villaggio sperduto dei Monti Pirenei, sul versante francese.
È morto il 13 Novembre 2014, un giovedì mattina, all’età di 86 anni.
Per tutti i suoi colleghi era “il matematico eremita”, un genio della geometria algebrica, grande studioso dei legami tra numeri e filosofia.
Era stato un docente universitario di elevatissimo livello intellettuale.
Poi aveva abbandonato la comunità scientifica internazionale e la vita pubblica in totale dissidenza con le istituzioni delle quali, per forza di cose, si era trovato a far parte.
Alexandre Grothendietck era nato a Berlino nel 1928.
Suo padre, Alexander Shapiro, era un ebreo di origine russa. Ed era un fotografo, oltre che un militante anarchico.
La madre, Johanna Grothendietck, era nata in una famiglia protestante che, un secolo prima, si era trasferita dall’Olanda ad Amburgo, in Germania.
I due si erano conosciuti nel mondo dei movimenti anarchici tedeschi.
Per proteggere il loro figliolo, in una Germania che stava consegnandosi al nazismo, i genitori, non sposati, riuscirono a dargli il cognome tedesco della madre.
Grothendieck e i suoi genitori arrivarono in Francia, in fuga dal regime nazista, a metà degli anni Trenta.
Alexandre Grothendieck fu internato durante l’occupazione tedesca della Francia, dopo la sconfitta del 1940.
Il padre, successivamente, era morto nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, Alexandre riuscì a diplomarsi e ad
entrare all’Università di Montpellier, in Francia.
Fu a Montpellier, infatti, che Grothendieck fece il suo primo exploit. In pochi mesi riuscì a risolvere i quattordici problemi matematici che gli erano stati assegnati come tesi di laurea da Laurent Schartz e Jean Dieudonné, due grandi matematici. Laurent e Dieudonné avevano assegnato quei problemi al loro “discepolo” pensando che potesse risolverli nell’arco di circa due anni.
Negli anni successivi, Grothendieck insegnò in un’Università brasiliana e poi in un’Università statunitense.
Quindi rientrò in Francia, accompagnato dalla reputazione di mente geniale, anche se atipica.
In Francia entrò a far parte dell’IHSS, l’Istituto degli alti studi scientifici. In quella sede Grothendieck divenne un illustre studioso di geometria algebrica. Realizzò studi scientifici e organizzò conferenze che rivoluzionarono il campo di quegli studi, facendo di lui una celebrità.
Nel 1966 gli venne attribuita, a Mosca, la Medaglia Fields, la massima onorificenza per i matematici. Grothendietck non ritirò il premio per protesta contro la politica di riarmo dei sovietici.
Negli anni Settanta arrivò la rottura tra lui e le istituzioni per le quali lavorava.
Essendo un pacifista convinto e un militante ecologista radicale, Grothendieck si rifiutò di continuare a lavorare per l’IHSS quando scoprì che l’Istituto era finanziato, in parte, dal Ministero della Difesa francese.
Nei primi anni Ottanta lavorò prima all’Università di Montpellier e poi al Centro Nazionale di Ricerca Scientifica francese.
Tuttavia, la sua insofferenza per le istituzioni e i metodi della comunità scientifica internazionale era ormai evidente.
Nel 1990 abbandonò la vita accademica e si rifugiò nel villaggio di Lasserre, sui Monti Pirenei. Un villaggio di poche case con meno di 200 abitanti.
A Lasserre, sotto falso nome e nell’isolamento più totale, continuò i suoi studi
sulla matematica, sulla geometria e sul loro valore filosofico.
Di lui resta una fama di mente geniale, alla perenne ricerca dell’assoluto, e un’eredità intellettuale che nel campo della matematica è giudicata inestimabile.
Di Grothendieck resta anche un “tesoro scientifico” nascosto, sul quale da decenni circolano voci non verificabili. Si tratta di migliaia di pagine di appunti e di calcoli, raccolte in cinque scatoloni, che l’autore affidò agli archivi dell’Università di Montpellier come un testamento, con la specifica disposizione di non renderli mai pubblici.
Nessuno saprà mai cosa c’è in quelle carte. E forse è giusto che sia così.
Arturo Casalati