A saperli cercare, di romanzi che hanno nel proprio dna caratteristiche che li contraddistinguono dalla maggior parte delle proposte editoriali in circolazione, ce ne sono ancora parecchi. Uno di questi è “A gran giornate” (La Linea, 2012, pagg. 256, € 14), il nuovo libro di Claudio Morandini: un romanzo che spazia tra viaggio e parodia, tra avventura e umorismo. Ne ho discusso con l’autore…
– Caro Claudio, anche per te la mia classica domanda “di apertura”: raccontaci qualcosa sulla genesi di questo libro. Come nasce “A gran giornate”? Da quale idea, o esigenza, o fonte di ispirazione?
Caro Massimo, il romanzo nasce già nel 2009 da un desiderio: quello, un po’ infantile se vuoi, di vivere un’avventura letteraria in piena libertà d’invenzione, senza preoccupazioni di verosimiglianza, di cronologia, di psicologia – era un’esigenza che sentivo dopo la stesura di “Rapsodia su un solo tema”. Ora, visto che anche quando cerco la piena libertà non posso fare a meno di scovarmi dei modelli letterari a cui ispirarmi, ho trovato nella struttura frammentaria del “Satyricon” di Petronio quello di cui sentivo il bisogno: una pluralità di personaggi e di storie, dunque, ma focalizzati per frammenti più o meno grandi, che ho voluto numerare anch’io come se un filologo immaginario si fosse preso la briga di mettere ordine, e inframmezzati da ellissi e perdite. Poi ho alimentato il romanzo con le reminiscenze dei romanzi che mi avevano impressionato sin da bambino: i Viaggi straordinari di Verne, il Gordon Pym di Poe, le Storie dell’anno Mille di Malerba… Oppure, fondamentali, con le immagini e i dialoghi dei film di Buñuel… Non so se queste reminiscenze si sentono a opera compiuta, so solo che per me, al momento della composizione del romanzo, sono stati riferimenti importanti.
Il registro comico si è imposto un po’ da sé: a modo suo, per la sua carnalità, la corporalità, per la concretezza dei dettagli, “A gran giornate” è un romanzo realista – e il comico, secondo un modo di vedere di lunga tradizione, è fortemente legato al realismo, alla terra, al corpo, alle pulsioni e ai bisogni primari dell’organismo, la fame, la paura, il desiderio… Ecco perché i miei personaggi finiscono per diventare loro malgrado dei picari moderni, sempre però un po’ fuori parte. In molte pagine il comico nasce proprio dall’insipienza e dall’inettitudine dei personaggi, sbalzati in situazioni troppo complesse per loro. E alla fine, a pensarci bene, si ride della vita e della morte. Potrei aggiungere che questo romanzo è stato per me, in questi anni, un modo per dare forma narrativa alla riflessione sulla fase inevitabilmente declinante della mia vita, sulla mia finitezza biologica, e via dicendo.
Qualcuno infine ha voluto anche vedere in “A gran giornate”, nel senso di minacciosa instabilità che lo percorre, un rimando all’instabilità priva di prospettive ottimistiche che tutti stiamo vivendo in questi anni – anche questa è una lettura legittima.
– Questo tuo romanzo offre, tra le altre cose, anche elementi “allegorici”. C’è, dunque, ancora spazio per l’allegoria (e, aggiungo, “la metafora”) nella nostra letteratura?
“A gran giornate” è anche un gioco con il lettore su questi elementi allegorici: è un gioco, nel senso che non c’è nulla da decifrare, non è prevista un’esegesi: volevo che immagini e segni misteriosi popolassero il libro, e lasciare che i personaggi (e con loro i lettori) si interrogassero sui possibili significati, o sull’impossibilità di risalire a un senso. Per esempio, che cosa significa la donna dal profilo di pesce che appare più volte nei sogni di molti personaggi, accompagnata da creature che sembrano uscite da un quadro di Bosch? Io non lo so, e in un certo senso aspetto che qualcuno me lo possa dire. Ho soltanto dosato quell’apparizione in alcuni punti della storia, ho trovato le parole per raccontarla in modo sempre diverso.
In generale, mi piacciono le storie che possano rimandare ad altro, le immagini che significano o sembrano significare altro da sé: è una cosa che, da romanziere, invidio al poeta, questa capacità di pensare per analogie, questo privilegio di cogliere o almeno di intuire legami misteriosi tra le cose. Ogni tanto ci provo anch’io, e dilato le metafore fino a farne racconto allegorico. Se devo essere sincero, non è tanto il momento della decodificazione del mistero a interessarmi, ma proprio il momento precedente, quello dell’esitazione sospesa di fronte al mistero inaspettato, quel punto di domanda che resta privo di risposta, o che porta a troppe risposte diverse (in confidenza, non credo vi sia nulla da decifrare, alcun senso criptato da svelare).
– Trovo che “A gran giornate” sia un titolo molto letterario. Mi piace. A cosa è dovuta la scelta? Anche questo titolo ha un valore simbolico?
Sì, e la chiave sta in quel sonetto di Petrarca che dice “La vita fugge e non s’arresta una hora / et la morte vien dietro a gran giornate”, cioè a tappe forzate, di gran carriera, magnis itineribus come dicevano i romani. C’era questa idea di rappresentazione della vita dell’uomo come una corsa trafelata verso qualcosa (un abisso, il più delle volte…), un’idea che attraversa la poesia nel corso dei secoli e che ho voluto trasformare in una situazione narrativa. C’è quindi il ricordo, che spero sia rimasto discreto, sottotraccia, di Petrarca, ma anche quello di Leopardi. Quando, nella seconda parte del romanzo, racconto di quella strana e inconsapevole solidarietà che si instaura tra i personaggi e che rende meno insopportabile l’insensatezza minacciosa del loro viaggio, ho in mente il Leopardi de “La ginestra”. Mi sembra davvero un messaggio di prudente ottimismo, l’unico possibile. In un romanzo non è mai bene, credo, esplicitare troppo le proprie intenzioni, o le proprie fonti (lo faccio ora, con te, e volentieri, ma qui è un altro discorso): ho collocato alcuni personaggi in quella allegoria, alcuni antieroi improbabili, e ho lasciato che ci si muovessero.
Comunque, non posso fare a meno di nutrire i miei libri di riferimenti alla tradizione letteraria. Qualcuno me lo ha pure rimproverato. Ma io vedo nella letterarietà un valore aggiunto, non uno sfoggio di erudizione da prof di liceo: è un inserirsi consapevole (e sempre improntato, spero, alla discrezione) in un universo di parole, temi e figure, un avvalersi della profondità e dell’apertura sul mondo di quei giganti sulle cui spalle ci siamo arrampicati per guardare un po’ più in là.
– Domanda che non si dovrebbe fare (ma procedo comunque)… Tra i personaggi che popolano questo tuo romanzo, qual è il tuo preferito? E perché?
No, no, anzi, è una domanda sacrosanta! In realtà, per quanto uno nello scrivere cerchi di mantenersi distaccato rispetto alle figure che gli popolano le pagine, si finisce sempre per entrare in un forte, stretto, complesso rapporto con esse. Mi è capitato con Ethan Prescott e Rafail Dvoinikov, i protagonisti di “Rapsodia su un solo tema”: ne parlavo, durante le presentazioni, come di persone reali, finendo per alimentare l’equivoco che fossero davvero figure storiche, mentre appartenevano all’invenzione. E mi sta capitando con i bislacchi personaggi di “A gran giornate”, che sono assai più sfuggenti e assai meno verosimili, lontani da una caratterizzazione realistica, da una solidità psicologica.
Il mio personaggio preferito (vedi, sto al gioco!) è Tullio Semenzani, forse perché lo sento così diverso da me: è anche un personaggio in continua mutazione, uno dei primi ad apparire, prima come truffatore, seduttore di vecchiette ed ex carcerato (ma chissà se è tutto vero quel che racconta all’intimidito Onorato Casamagna), poi spaventato a sua volta, ospite assieme all’io narrante nella pensioncina che accoglie anche un mostro che ringhia tutta la notte, poi di nuovo in cerca dell’occasione, pronto ad approfittare degli altri, a fare il duro…
Tutti i personaggi mutano, in realtà: anche Franchino Spaventa, che si trasforma anche fisicamente in un monumento vivente alla body art, anche Nathan…
Nathan è stato una vera sorpresa per me: all’inizio lo consideravo una macchietta o poco più, invece ho scoperto che la sua natura contraddittoria (prima bigotto fustigatore di nudisti e subito dopo entusiastico adepto del naturismo) e soprattutto la sua ingombrante, impacciata corporeità hanno colpito e turbato particolarmente i lettori: Nathan, insomma, è il più misterioso, nasconde una complessità anche inquietante che i primi riscontri dei lettori mi hanno rivelato. Ma forse sto divagando…
– Ti elenco alcune parole: viaggio, parodia, grottesco, umorismo, avventura. Se dovessi scegliere una sola di queste parole da affiancare a “A gran giornate”… quale sceglieresti? E perché?
Sono tutte parole perfettamente coerenti con il mio romanzo, e faccio difficoltà a decidere. Sceglierò “avventura”, perché mi sembra la più ampia, e perché come dicevamo all’inizio “A gran giornate” è nato come romanzo d’avventura, inseguendo lontane reminiscenze verniane, poi perché la vita (dentro e fuori dalle allegorie) è un’avventura, talvolta tirata per le lunghe, e perché è stato un’avventura (divertente, inquietante, talvolta appassionante, di rado preoccupante) lunga alcuni anni scriverlo, mettere insieme le pagine, sperimentare soluzioni possibili e aggirare ostacoli, veder nascere fili e relazioni tra le diverse parti, tornarci su a più riprese, e via dicendo. Un’avventura corsa, verso la fine, insieme con un editore coraggioso come La Linea, che si è affacciato nel panorama editoriale da poco più di un anno e con scelte di qualità e ha scelto di promuovere un romanzo non catalogabile e fuori da certe facili mode del momento.
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Titolo: A gran giornate
Autore: Claudio Morandini
Editore: La Linea (Bologna)
Collana: Tam tam
Prezzo: € 14.00
Data di Pubblicazione: Luglio 2012
ISBN: 8897462200
ISBN-13: 9788897462200
Pagine: 256
Reparto: Narrativa > Narrativa contemporanea