L’alambicco sfiatato di Corrado S. Magro 8


raccontiPapé Concilio sonnolava seduto su una pietra, in un angolo a ridosso di un muro a secco, dove la brezza di tramontana non lo sfiorava. Marzo volgeva alla fine e la primavera siciliana si annunciava opulenta di colori e scoppiettante di energia come una ninfa danzante o come una gazzella che saltella per gioco sopra i cespugli di mirto e di lentisco. La testa grigia pendeva verso il basso per poi tornare all’altezza normale dove soggiaceva per due, tre secondi e da dove riprendeva la discesa, prima lentamente, poi sempre più veloce e quando sembrava volesse definitivamente andare a toccare terra, zac, si arrestava e risaliva in un’unica tappa fino al punto di partenza. Una mosca
incuriosita e avida di calore oltre che di cibo, gli si era posata, a testa in giù anche lei, sul labbro superiore dove, avendo trovato qualcosa di suo gusto, si attardava facendosi dondolare nei due sensi. Ogni tanto sollevava le zampette posteriori strofinandole l’una contro l’altra e scuotendo le ali. Uno di questi esercizi, eseguito proprio all’ingresso del setto nasale andò a sfiorare i peli che vi crescevano provocando un sonoro e benefico starnuto. A mala voglia fu spazzata via da quella burrasca, ma per nulla impressionata tornò a posarsi ora sulla punta del naso. Papé cominciava ad averne troppo di quell’insetto impudico e sfacciato e per allontanare quell’insolente rompiscatole,
estrasse di tasca il fazzoletto: si soffiò il naso.
Fu così che si accorse di una lucertola che a pochi centimetri dalla sua scarpa lo osservava incuriosita con la testa alzata. Aveva adocchiato la mosca ma non aveva il coraggio di tentare la scalata fino al naso. La lucertola scorse un formicone che sollecitato dai caldi raggi solari, si affannava con uno sterpo, gli si portò fulminea addosso e lo inghiottì. Papé strappò un lungo stelo verde e giocando di pazienza cercò di avvicinarsi lentamente al rettile per stuzzicarlo. Ma questi, pur sembrando tutto intento a guardare altrove, con quegli occhietti vigili e irrequieti non si lasciò
sorprendere, saettando via per oltre un metro e risollevando la testa per assicurarsi che Papé la smettesse di rompere con quello stelo.
“Ma va a capire queste formiche,” si diceva Papé pensando a quella che si era lasciata fagocitare, “cosa voleva farci con quello sterpo secco della stagione precedente?”
Sventolò il fazzoletto per allontanare la mosca. Erano passati i tempi quando le acchiappava vive al volo. Allora, dopo averle private delle alette o le infilava nel calamaio del compagno di banco o nel caso che questi fosse appisolato o pienamente concentrato su quello che usciva dalle labbra del cattedratico, gliele infilava nelle orecchie facendolo urlare e saltare sul banco con conseguente espulsione di ambedue per i prossimi quindici minuti di noiose spiegazioni più una nota nel registro. Papé lo compensava rispiegandogli dopo la lezione, spesso a modo proprio, causando qualche disagio a quel pacioccone quasi sempre addormentato e che grazie alle mosche non si sentiva messo al bando dalla classe.
Sondò con il cranio le pietre del muro, in cerca di un posto non troppo scomodo che funzionasse da sostegno occipitale e richiuse gli occhi pensando. Fantasticando, scivolò in un dormiveglia che lo trasportò negli anfratti dove si annidava la storia della sua vita passata. E questi anfratti erano tantissimi e difficili da scrutare, con il loro colore rosso vellutato, rassomigliavano agli alveoli cardiaci che gorgogliavano di sangue.
Sorrise compiaciuto senza muovere le palpebre. Non aveva mai avuto tempo di annoiarsi. L’ultima volta avvenne quando era in seconda elementare. Sua madre, taciturna, era intenta a rattoppare i pantaloni del padre e dei fratelli, le sorelle erano assenti o occupate e lui non trovava cosa fare, come e con chi giocare. L’orrore provato da un temporaneo appiattimento della fantasia e da un profondo stato d’inedia lo aveva turbato a tal punto, che gli era rimasto come un incubo da evitare per sempre. La noia, la monotonia, equivaleva a un essere morto, cosciente di essere ancora vivo, ma incatenato da tentacoli di erbe inestricabili che sprofondavano nel fango di uno stagno.
Si dava fuggiasco ogni qualvolta ne intravedeva il lontano profilarsi, cambiando attività, posto di lavoro, iniziando corsi d’istruzione che lasciava a mezz’aria quando si rivelavano uggiosi e senza senso.
Alla possibilità di fare carriera, accedendo ai ranghi riservati a coloro che si rivelavano costanti e accondiscendenti verso padroni e datori di lavoro, aveva preferito una gavetta quasi continua, mal remunerata ma piena di estro, varietà e vitalità. Diciottenne si era confrontato con la chimica. Oltre ad avere appreso a giocare con il periodo degli elementi e con le valenze, era diventato in breve tempo un esperto delle distillazioni frazionate delle quali eseguiva cromatografia e spettrografia, indici di rifrazione, pesi molecolari e via dicendo.
Beh era un bel da fare.
La sua fantasia ora in cerca di qualcosa di ilare e al calduccio confortante di quella mattina di quasi primavera, immaginava i chetoni, non come strutture organiche, ma come fossero uomini calvi, alti e grossi che con la faccia piena e le mascelle rosee se ne stavano seduti, immobili, cheti, cheti, col palmo delle mani sulle ginocchia. Erano tanto grandi e cheti da poterli chiamare “chetoni”. Associava il nome pirazolone, un composto della cibalgina, a un uomo con naso penzoloni come quello delle scimmie nasiche, lungo e grosso come una melanzana, che tirava in giù l’angolo interno delle sopracciglia alle quali restava malvolentieri appeso.
Dalla chimica era tornato alla zappa e all’aratro, poi aveva studiato, era emigrato. Per quasi un anno aveva sbarcato il lunario come manovale di fabbrica, dopo si era dato testa e corpo all’elettronica e più avanti a gestione aziendale e vendita. Aveva incontrato tanta gente interessante e tante teste d’uovo che esalavano di scovato.
Quando decise di andare in pensione, qualche anno dopo averne raggiunto l’età, abbandonò a malincuore clienti e mercati, ripose in un cassetto fatto di ricordi tre delle quattro lingue di cui andava orgoglioso, si congedò dalla moglie che godendo della propria pensione e della metà di quella di Papé poteva sopravvivere e si lasciò dietro le alpi, ma questa volta in direzione sud. Portò con sé qualche valigia di libri, tanti fogli di carta pieni di notizie, dei CD con tutto quello che prima era nella memoria del suo ordinatore, i testi di medicina cinese, il letto per massaggiare persone, una grossa valigia piena di abiti, il calcolatore portatile e il desiderio di riscoprire la vita, laggiù dove era nato e cresciuto.
Ora era là nella sua Sicilia. Si sentiva nuovamente a suo agio. Aveva riacquistato e ristrutturato il caseggiato di un vecchio frantoio che una volta fu dei suoi avi e con esso uno stacco di terra, in parte pianeggiante in parte collinoso, dove cresceva una grande varietà di cespugli e alcuni ulivi ultrasecolari.
Proprio con la terra intratteneva un rapporto affettivo, sensuale, quasi morboso. Una zolla, né troppo umida, né troppo asciutta, sul palmo della mano gli dava l’impressione che vivesse. Ne osservava il marrone cupo, quasi nero, saturo di fertilità, ne sentiva i palpiti che battevano in assonanza con i suoi quasi a straripare dal palmo della mano per essere un tutt’uno con la zolla. L’osservava, mentre il pugno si chiudeva sgretolandola, lasciandola cadere al suolo, e restava immobile con la voglia di seguirla in quell’atto di dolce annientamento simile all’amore. Arrivato che fu, non rimase con le mani in tasca a sognare. Si mise ad arricchire i prati acquistati con varietà di piante e cespugli a basso fusto, curando quelli che già vi crescevano.
L’attività gli faceva un gran bene e l’otre che pendeva prima dallo sterno in giù, aveva avuto la peggio e si era dileguato silenziosamente, liquefacendosi in un sano sudore o accompagnato da qualche borborigmo che sfociava in un borbottio rimbombante, tra le pareti del cesso. Adesso aveva l’aria di un cinquantenne ripulito.
Quasi mensilmente, visto che le economie non gli permettevano oltre, si recava nel capoluogo di provincia a godersi la delizia di pesce fresco di mare, arrostito alla brace in ristoranti non addobbati a lusso, bensì intenti ad arricchire di sapori le pietanze preparate in una cucina conosciuta solo
da quelli del posto.
In uno di questi ristoranti aveva visto per la prima volta Mara. Stava seduta a un tavolo, e parlava fitto, sottovoce, con una ragazza che le faceva compagnia. Papé non aveva potuto fare a meno di notarla, quella bella donna sui quarantacinque, con lunghi capelli di un color rosso castano che ogni tanto scuoteva, parlando, come se negasse qualcosa. Aveva indirizzato una volta o due gli occhi verso di lui , occhi di un fondo color giada, così, come per caso, mentre parlava. Papé ne ascoltava la voce limpida, armoniosa, e, fingendo di accomodarsi meglio sulla sedia, ne sbirciava e ammirava di profilo il viso, dalla pelle abbronzata dal sole.
Infine, la ragazza che stava con lei, forse in ritardo a qualche appuntamento, se ne andò di corsa. La donna invece rimase ancora un po’, pensierosa; poi frugò nella borsetta, ne trasse una piccola sciarpa di seta cangiante che si avvolse al collo, e si alzò.
Papé vide che non era alta, con un corpo aggraziato e sinuoso che, a un intenditore come lui, diede un brivido. Non si sarebbe mai aspettato che, al muovere del primo passo, la bella signora s’aggrappasse al tavolo e avanzasse poi a fatica poggiandosi, ove poteva, ai tavoli che sfiorava. Si era appoggiata anche al suo, e Papé non aveva potuto allora trattenersi dal rivolgerle la parola.
“Perdoni, signora, non vorrei sembrarle invadente…, potrei avere l’onore di offrirle un caffè? Mi scusi, non pensi male. Io di solito non… però vedo che lei soffre, e magari, chissà, potrei aiutarla.”
Lei gli spalancò addosso gli occhi luminosi.
“Aiutarmi? Nessuno ci è ancora riuscito. Ma lei è medico?”
“No, non proprio, diciamo che sono un cultore di metodi terapeutici naturali, e ho avuto modo di vedere che funzionano, sa? Molto più delle medicine.”
“Oh!” e fece cenno di volersi sedere. Papé accorse a spostarle la sedia.
Il ghiaccio era rotto.
Forse il suo aspetto dall’età indeterminabile, ma in ogni caso di chi non cerca più avventure, o il tono con cui le aveva parlato, forse la pronuncia nitida senza flessione alcuna, che allontanando ogni riferimento a una qualsiasi matrice regionale destava curiosità, o forse il desiderio della donna di liberarsi da quella tortura, gli avevano facilitato l’approccio.
Davanti a una tazzina di caffè, la bella signora ascoltò avidamente le parole di Papé Concilio. Le prospettive dei medici, per lei, erano temibili: o l’impianto di una protesi, o un tentativo chirurgico molto impegnativo alla spina dorsale. Ma aveva tanta, troppa paura.
“Qualsiasi cosa,” disse, “ma non i ferri. Scusi, non mi sono nemmeno presentata: mi chiamo Mara.”
“E io Papé, Papé Concilio,” si affrettò lui, accennando a un mezzo inchino.
Risero tutti e due insieme e fu così che Mara entrò nella sua vita.
La donna accettò di farsi strizzare, strapazzare, accarezzare, palpare dalle mani di Papé Concilio, mani che erano sorgenti di energia che trasmettevano calore e benessere, e che sul corpo di Mara scivolavano, stringevano, premevano e lisciavano, muovendosi esperte, facendola ritornare una donna sana e felice di esserlo.
Mara gli fu riconoscente, vantando spesso le virtù di quelle “mani”, tanto da costringere Papé a mettercela tutta per non discreditare se stesso e la sua ex-paziente. Più di ogni cosa si consolidò tra i due un’amicizia tranquilla e faceta, coltivata in cucina con delle buone pietanze annaffiate da un rosso scuro, spillato da una delle due botti casalinghe, e degno di Bacco e delle Baccanti. E se il Bacco e la Baccante si immedesimavano nel ruolo più del normale, slittavano sul divano, le braccia dell’uno sugli omeri dell’altra e viceversa e sceglievano una melodia o, a secondo del tenore della nebbia che avvolgeva il cervello, una di quelle canzoni che non finiscono mai.
“Papé, quando hai quel naso rosso, sei più stonato di una campana di terracotta.”
“E tu sembri abbaiare alla luna.”
“Ma sentilo! La mia voce potrebbe venire incisa.”
Papé le arruffava i capelli:
“Sì sì, e come no, incisa, ma solo se il tuo posteriore fosse un disco.”
Mara si alzava di botto:
“Sei insopportabile e villano, Papé Concilio, te lo aveva mai detto nessuno?”
Lui rideva di gusto. Era il suo modo di dirle quanto le voleva bene. Quando invece la materia grigia non era impregnata di rosso rubino, discutevano, confrontavano le singole opinioni che a volte cozzavano come le teste di due arieti, ma alla fine, anche se a fatica, Mara e Papé trovavano sempre un punto sul quale poter convergere, stabilendo un compromesso.
Lei, che aveva incominciato ad aiutarlo nel lavoro, prima di congedarsi, lo abbracciava e Papé le porgeva la guancia, su cui Mara schioccava un bacio. Papé la guardava compiaciuto mentre si allontanava, finalmente agile e svelta, come una ballerina sulla scena.
Mara aveva preso a portargli dei fiori. Sì, gliene portava a ceste piene, fiori cresciuti e sbocciati nel grande giardino della natura libera.
Quant’era brava “l’A-Mara”, come la chiamava punzecchiandola, al che lei ribatteva:
“Attento Pape-ro, se ti acchiappo o ti strizzo il collo o ti spedisco a Papete.”
“E dove sta Papete?”
“Là dove sono tutti i Pape-ri come te.”
Papé non arrivava a capire come mai una donna tanto affascinante e vivace, privata del meglio dopo essere rimasta vedova, non si fosse risposata o non avesse acchiappato un convivente. Di uomini ne poteva avere tanti quanti ne voleva, e invece no, niente di tutto.
Valle a capire queste donne.
Il marito, un tecnico petrolifero, le era morto diversi anni prima in un incidente su una piattaforma di estrazione e lei, senza figli, con l’assicurazione che aveva riscosso, poteva vivere bene, facendo quello che le gustava fare: per esempio portare fiori a Papé.
Non che Mara fosse uno stinco di santa, votata alla castità, ma se una volta tanto se ne tirava uno tra le lenzuola, era solo per necessità biologica. Dopo lo allontanava, preferiva non vederlo, non incontrarlo più. Di queste sue scappatelle, a parte qualche rara volta con Papé, non ne faceva parola con nessuno, nemmeno con le sue più grandi amiche.
Ma che ci faceva Papé con i fiori?
Un uomo dalla fantasia bollente che ha dedicato anni della sua vita al mercato, rimane sempre uomo di mercato. Gli piaceva leggere nel cuore della gente o, meglio, nel cuore dei consumatori. Questo scrutare, interpretare desideri, libidine o lussuria, cogliere il momento giusto per fare germogliare esigenze dettate da necessità o piaceri zampillanti dall’ego, era una dote profondamente annidata nel suo midollo osseo. E così al profumo del gelsomino, della rosa o della lavanda, creato nelle provette di laboratori asettici, aveva deciso di contrapporre estratti di fiori e piante che la natura metteva a disposizione. L’isola grazie al clima e al sole, con le sue colline brulle a prima vista e con gli agrumeti e frutteti che la popolavano, era uno scrigno inesauribile a cui attingere tutto l’anno.
Si era dotato di un alambicco, più precisamente di un distillatore abbastanza moderno e funzionale, dal quale, quando lo puliva e strofinava con una cura devota, sperava venisse fuori il Genio fantasma, come quello della lampada di Aladino. Aveva comprato tante damigiane, dove lasciava macerare nell’alcol erbe selezionate, cime di cespugli, foglie e fiori, adibendo a deposito uno scantinato.
Nei giorni della settimana, che riservava per sé e per Mara se fosse venuta, curava i campi, distillava, mischiava, provava e quando credeva avere ottenuto qualcosa di valido lo presentava alla sua amica per sentirne il giudizio:
“Mmmm, troppo oleoso. Troppo forte, scialbo, irritante. Divino, malioso, nauseabondo, seducente.”
Mara era molto brava nel promuovere relazioni pubbliche.
“Offriva” una giornata in campagna, una scampagnata arricchita da un’ottima cucina, ad esperti di cosmetica che nella maggior parte dei casi divenivano clienti e se non lo divenivano, che si trattasse di un uomo interessante o di una donna affascinante, si precludevano ogni diritto a partecipare ad altre giornate del genere. Insomma, gli affari erano affari.
Il tocco della natura degli estratti di Papé era un distintivo inconfondibile per chi se ne intendeva. Pur trattandosi di profumi e oli che richiedevano tanto lavoro e venivano estratti in quantità minime e quindi abbastanza cari, erano molte le persone, soprattutto donne, che li richiedevano. Le campionature gratuite, Mara le offriva a dame in vista della società mondana e a modelle rubacuori che non celavano astuzie per soffiare alle mogli legittime il “mecenate”, appassionato benefattore e promotore della posizione orizzontale. Queste attenzioni venivano ampiamente compensate dalle richieste di chi aggiungeva alle arti subdole, la seduzione di un corpo dal profumo soggiogante e di chi voleva armarsi con qualcosa di esclusivo per dare scacco matto alle avversarie.
Il gioco era fatto, e la cosa non dispiaceva né a Mara né a Papé, che contavano i profitti.
Il più richiesto era anche il più prezioso: il profumo estratto dalla zagara degli aranci e dei limoni, seguito da quello del gelsomino.
Mara si era attrezzata, e la sua attività spaziava. Papé senza di lei non avrebbe mai avuto un tale successo. Oltre ad essere un’eccellente operatrice di mercato, Mara sapeva organizzarsi. Per raccogliere zagare e fiori, si era equipaggiata con reti che faceva appendere agli alberi degli agrumeti e dei frutteti in fiore, così quello che cadeva da solo o scosso o tirato via, rimaneva preso, pronto ad essere messo in una cesta.
Il ricavato delle vendite se lo spartivano in parti uguali. Papé era contento. Gli affari andavano bene, e quella parte di pensione che mensilmente gli arrivava era un’extra per qualche capriccio. Adesso amoreggiava con l’idea di esporre alla fiera del capoluogo, dove affluiva anche gente dell’altra sponda del Mediterraneo. Coniugava nel suo lavoro intuizione e metodo, e voleva conferma che tale successo non fosse solo opera del fascino di Mara. E così, studiava con attenzione le caratteristiche della materia prima, distillava, dosava, mischiava e se intuiva trattarsi di qualcosa di interessante, lo faceva analizzare da un laboratorio del quale si fidava, facendone certificare il contenuto.
Catalogava il dosaggio e il tipo delle piante impiegate con meticolosa precisione, custodendo gelosamente queste informazioni in un posto, del quale solo Mara conosceva l’esistenza.
La tiepida temperatura primaverile gli infondeva una certa sonnolenza. Appisolato, si lasciava cullare dalla nenia offerta dal vento che lamentandosi, a volte come un lupo incatenato, a volte come un bimbo in difficoltà, s’infrangeva contro le mura della casa, frusciava frenato dai rami degli ulivi ricchi di foglie, soffiava nell’ocarina, sibilava come una frusta che taglia l’aria.
“A Papéééééé!”
Accidenti! Ma proprio così doveva svegliarlo? Roba da prenderla a bastonate:
“Mannaggia a te! Che tutte le Mare diventassero more così servirebbero a qualcosa. Per
poco non mi fai prendere un infarto.”
“Tu un infarto? Perché, ci hai anche un cuore?”
“Sì e al posto giusto. Mica come te, che ce l’hai tra le…”
“Non ti permettere Papé, che se no una volta o l’altra ti accoppo.”
“E poi chi ti distilla i profumi?”
Mara fece una giravolta dispettosa, con i capelli che le facevano ventaglio intorno.
“Sai che me ne importa a me dei tuoi profumi! A proposito, cos’è questo odore? Stai
distillando qualcosa di nuovo?”
“Ecco! Te ne freghi, ma sei più curiosa di una vecchia comare al balcone. Sì. Ho preparato un nuovo miscuglio, qualcosa per avvelenarti in sordina, ma ci vorranno diverse ore prima che il processo sia finito.”
Mara fece il broncio. Ma quando Papé decideva di non parlare, inutile tentare di fargli cambiare idea, a quel vecchio mulo.
“E va bene, me lo dirai. E i gatti sono dentro? Li ho sentiti far baruffa. Dai vieni. Ho portato roba da cucinare. Qualcosa che ti piace: del buon pesce fresco da arrostire al carbone. Però non avrei dovuto. Meglio lasciarti schiattare di voglia.”
“Sì, rientriamo. Sai come farti perdonare, eh? I gatti sono peggio di te. Una volta o l’altra te li appendo al collo.”
Mara gli avvicinò il naso al naso, proprio come un gatto quando gli andava di graffiare:
“Io ti appendo al naso quello che hai di più caro.”
“E come faccio a sostenerlo?”
“Non è che sia poi così pesante. E poi, chissà se ancora esiste.”
“Beh, se pensi che quello che ho di più caro, in questo momento, sei te, allora povero il mio naso.”
“Non girare sempre le cose a modo tuo, vecchio sbilenco.”
“Sbilenco io? Senti chi parla! Non ricordi com’eri quando ti ho conosciuta, che parevi la Strega Gambastorta?”
Mara gli si avventò contro con le unghie sfoderate. Papé si salvò allontanandosi dal muro che li divideva per poi scavalcarlo agilmente. Con Mara era sempre così: due gatti che si graffiano, parevano. Due adolescenti briosi e dispettosi, che però si volevano un gran bene.
“Ciao, brutta strega,” le gridò.
“Ciao satanasso,” strillò Mara.
Avviandosi verso la porta di casa, l’odore fu percepito anche da Papé. Mentre si avvicinavano, quella fragranza trasportata dal vento diventava sempre più insistente. Era un odore nuovo, diverso da quelli che normalmente emettevano gl’intrugli usuali. Più Mara e Papé annusavano, più avevano voglia di riempirsi le narici. Che strano.
Entrarono in casa.
All’interno l’aria era impregnata. Respirando a bocca piena, provavano la sensazione simile a quelli dal gomito facile, che dopo il secondo bicchiere vorrebbero svuotare l’intera botte. Entrarono nel vano dove distillava.
L’apparecchiatura stava al suo posto, ma il matraccio, il cui contenuto gorgogliava pacatamente, sfiatava. La pinza che garantiva l’imbocco inferiore del refrigeratore al collo del matraccio era saltata e i vapori venivano fuori saturando l’ambiente.
Ma cosa era successo? Chi diavolo aveva spostato tutto? Non potevano essere stati che i gatti. Che gli prendesse un accidenti a quei bastardi.
Papé staccò l’interruttore elettrico dell’apparecchio, volle innestare il refrigeratore e in quel momento sentì le gambe venirgli meno. La vista cominciava ad annebbiarsi. Si girò verso Mara:
“Che cosa mi succede? Mi gira la testa. Aiutami, Mara.”
“Anch’io mi sento strana. Su, appoggiati, vieni che ti conduco alla poltrona.”
Lo aiutò a sedere nella sua poltrona di cuoio, dove spesso amava fare un sonnellino. Ebbe appena il tempo di adagiarlo, che Papé partì nel mondo dei sogni. Mara si sentiva anche lei debole. Si passò la mano sulla fronte, sul viso, intorno al collo, come per respirare meglio, ma le gambe vennero meno anche a lei e si accasciò per terra, scivolando addosso a Papé.
Una ventina di minuti dopo Papé riaprì gli occhi. Si sentiva stordito e affannato. Il sangue pulsava forte nelle tempie e nelle vene, i battiti del cuore erano possenti e addosso una voglia matta. Si rese conto che Mara sdraiata a terra, ma con la testa sulla sua coscia, era ancora in una specie di limbo. La guardò: non pareva star male. Le guance erano rosee, solo sembrava dormisse beatamente.
Quel giorno aveva indossouna lunga gonna leggera, che le modellava il fianco, e dallo spacco intravedeva la gamba che tante volte aveva accarezzato massaggiandola. Papé trasalì.
Come aveva fatto a non aver preso coscienza di quella creatura disegnata con cura divina? E perché non aveva mai provato quell’intenso desiderio che adesso lo impregnava?
Le accarezzò i capelli, glieli scostò dal viso, le scoprì il collo e vide il seno che si alzava e abbassava con un lento respiro regolare. La desiderava da morire. Pian, piano, anche Mara aprì gli occhi, e sospirò profondamente. Si sentiva come un pulcino che vuole uscire dal guscio, che vuole vedere la luce del sole ma non riesce a perforare la cocca. Provava la sensazione come se in grembo avesse un fiore con un gineceo strapieno di pistilli che cercano spazio, allargando i petali. Sentiva anche lei un forte, strano desiderio.
Sfiorò forse senza volere l’inguine di Papé, e lo interrogò con lo sguardo. Sì, è così, sembrarono dire gli occhi di lui.
Le spinse indietro i capelli, se la prese tra le braccia ancora mezza addormentata, la sedete sulle sue gambe e le sfiorò la bocca. Sentì che Mara gli premeva le labbra con le sue, e allora la baciò profondamente.
“Papé?”
Lui non rispose. Le accarezzava i seni, le infilò una mano sulla pelle nuda e ne sentì i capezzoli tesi e duri come quelli di una diciottenne.
“Nel tuo giardino crescono fragole e ciliegie di qualità,” le soffiò all’orecchio.
“Hai voglia di raccoglierle?”
“Sì. Tanta.”
Papé la tenne stretta tra le braccia andando verso una stanza dove il letto li accolse.
Sentivano i gatti, di là, rincorrersi nei loro furori d’amore. E la pelle, la loro pelle, si fuse in un abbraccio caldo, il sudore li avvolse, li annebbiò, mentre quel profumo diventavacarne della loro carne, passione, follia.
“Cosa ci succede Papé?”
“Cosa, Mara?”
“Non avrei mai creduto che tua alla tua età…” gli bisbigliò Mara all’orecchio, stretta stretta contro di lui.
“Non so che dirti. Forse, senza saperlo, ti desideravo tanto. Oggi, non so cosa mi è successo. Se mi avessi detto di no, avrei cercato di costringerti. Perdonami, ma é così. Non credo a me stesso.”
“Vorresti dire che non è normale?”
“Non del tutto, Mara. Alla mia età sentirmi ancora così.”
Lei gli si avviticchiò di nuovo addosso. Papé non ricordava una simile passione. Si staccarono solo quando i morsi della fame cominciarono a farsi sentire. Cercarono i pesci per arrostirli. Trovarono la cesta vuota e guardando per terra videro resti e lische sparsi sul pavimento. I gatti avevano gradito.
“In fondo quello che è successo non mi dispiace, Papé.”
“Nemmeno a me. Ma non è solo farina del mio sacco. Pensa un poco a come si sono svolte le cose. Ho l’impressione che quell’odore ci ha stregati, Mara.”
“Una piacevole stregoneria, se penso che volevi avvelenarmi.”
Mara, provocatoria, si riassestò la spallina della maglietta.
“Cosa vuoi dire?”
“Su, Papé! E schiarisciti le idee. Pensa se un tale effetto non è dovuto al caso.”
“Credi?”
“Non solo lo credo. Ne sono sicura. Se tu oggi mi avessi rifiutata, io ti avrei sbranato. Non chiedermi perché. Forse anch’io ti ho desiderato tante volte, ma tu, anche se scherzi volentieri e di gusto, mi metti soggezione. E poi, eravamo amici.”
“Anche per me era così, e da tempo avevo represso il desiderio di te. A-Mara! La nostra amicizia deve continuare come prima. Ora sei più dolce.”
“Pape-ro! Ti spenno tutto. Te lo giuro! Ma almeno sai cosa hai messo a distillare?”
“Sì, l’ho notato in dettaglio. Lo sai che sono un pignolo.”
“Allora non ci resta che rifare l’esperimento, così vediamo se funziona.”
“Ehi, bella, vacci piano!”
“Non sei solo tu ad essere scientifico. Anch’io voglio avere conferma delle mie supposizioni. Davvero non vuoi riprovare l’esperimento?”
Riprovarono. L’esperimento riuscì.
Più tardi, prepararono un’ottima zuppa e a cena consumata tornarono all’alambicco che
ormai funzionava bene. Ora, solo un vago profumo si diffondeva nell’ambiente. Fu duro
non cedere alla tentazione di riempirsi i polmoni.
Mara prese una doccia. Fresca e con i capelli ancora umidi, sapeva di bosco. Rilassata,
un’ora dopo si stiracchiò come una gatta insonnolita:
“Stanotte rimango qui. Domani diamo bene aria, poi proviamo a scaldare un po’ di liquido in un crogiolo, e vediamo se fa effetto. Ti rendi conto che se funziona possiamo fare affari.”
“No, Mara. Non credo che faremo affari. Attireremmo su di noi un sacco di rogne. Tutto al più potremo rivolgerci, con discrezione, a conoscenti. Ma se osiamo soffiare nel corno, rischiamo grosso. Potrebbero accusarci di preparare delle droghe.”
L’esperimento, ripetuto con successo il giorno dopo, suggellò definitivamente la loro convinzione. Se i vapori venivano aspirati con parsimonia, non provocavano ubriachezza prima, né stordimento dopo.
La scoperta, grazie al saper fare della donna, fece crescere sensibilmente gli affari e permise di aiutare conoscenti, amici e amici degli amici. Molte crisi, sgorgate quasi sempre dal talamo, furono risolte.
Un bel giorno, dopo una discussione con il commercialista che analizzava il piano di un progetto che gli era stato presentato, Papé chiamò Mara al telefono:
“Senti, dolce A-Mara, visto l’andamento degli affari e il volume delle richieste, credo sia arrivata l’ora di espanderci. Prendi un appuntamento dal notaio. Ti propongo di costituire una società che gestiremo insieme. Però avremo bisogno di altro personale. Ci stai?”
“E che sono cose da dirsi al telefono, Pape-ro da stagno? Non ne avresti potuto parlare prima? Sempre il solito. Hai paura di dirmi quello che pensi. Stai diventando come zio Paperone.”
“Non sono tirchio come lui. Se lo fossi, non ti darei il meglio di me.”
“Sempre generoso, tu, eh? Un momento,” e dopo una breve pausa, “va bene. Ci sto, se
non mi metti ai lavori forzati! E di quanti collaboratori avresti bisogno?”
“Collaboratori? Nemmeno per sogno! Fossi matto. Voglio tre donne e su questo punto
non discuto.”
“Papééééé stavolta rischi veramente grosso. Io ti faccio la festa una volta per tutte. Te lo
giuro. E dimmi: come vorresti chiamarla questa società?”
““L’alambicco Srl”, Mara. Ciao e a domani dal notaio.”
Papé la sentì ridere e dire mentre lui riattaccava:
“Sei un papero imprevedibile che esce dall’uovo con la sorpresa”.

Corrado S. Magro

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8 commenti su “L’alambicco sfiatato di Corrado S. Magro

  • Enzo Maria Lombardo

    Un racconto lungo che tuttavia si legge d’un fiato. Denso di sano umorismo e con dialoghi spiritosi e convincenti, racconta la storia di una rinascita, fisica e psichica, di un ritrovarsi dopo una vita variegata ma forse non del tutto piena, fra i paesaggi, i gusti e gli odori della propria terra mai dimenticata.
    E, in questo contesto, ecco il ribollire di vita nuova e la scoperta di un “viagra” naturale, i cui ingredienti non sono solo estratti d’erbe, tuberi e cortecce ma i frutti dell’intimo rinnovamento e di un’amicizia che pian piano si tramuta in collaborazione e amore.
    Scritto con il minimo spazio per la passata storia dei due personaggi, il racconto – che a tratti appare quasi come una piece teatrale – riserva il suo meglio nel far “vedere” l’oggi con la sapiente e diffusa analisi di luoghi, personaggi ed emozioni, senza scivolare in facili boccaccesche situazioni ma sorvolandole appena, con gusto raffinato.
    (Un plauso particolare per l’uso, voluto, di termini informatici non anglofoni).

    Complimenti al bravo Corrado.
    Enzo Maria Lombardo

  • Giza

    Raramente capita di leggere qualcosa di così incantevole come questo racconto, realistico e insieme arcano, sul filo dei profumi di passioni che sgorgano stordenti come gli effluvi sfiatati dall’antico alambicco. Condivido con entusiasmo i commenti precedenti, in attesa di quel che uscirà dalla penna d’inesauribile freschezza e brio di Corrado Magro, al quale va il mio più caro saluto.

  • Renzo Montagnoli

    Delizioso. Si respira un profumo di natura, di cose buone, di sentimenti del tutto nella norma, e poi finalmente anche i vocaboli tecnici sono in italiano, cosa sempre più rara, vista l’italica abitudine di scimmiottare l’inglese, spesso con risultati esilaranti.

  • Corrado S. Magro

    Beh GRAZIE, ma dai nulla di eccezionale e vi confesso che quando tratto roba tecnica o saggistica non riesco sempre ad evitare gli anglicismi. Fa rabbia a me stesso, credetemi. Penalizzato dal raro uso della lingua (quasi) materna, cerco di non essere troppo sciovinista e dall’altro provo ad evitare l’imbarbarimento linguistico moderno.