Il sogno di Enzo Maria Lombardo 2


Al professor De Michele per un momento sembrò di vedere tutto, di potere afferrare tutto prima che la solita cortina di nebbia gli attanagliasse i pensieri. Poi quel tutto divenne nuovamente confuso, mimetizzandosi, oltre la vetrata, con le nuvole basse che avevano anticipato la sera.
Ogni volta che gli succedeva, il professore serrava gli occhi nuotando disperato tra le immagini retiniche, nel vano tentativo di richiamare quell’attimo di onnipotenza.
Quella sera l’assistente lo trovò seduto alla scrivania, quasi al buio, il mento sorretto da una mano tremante che gli avvolgeva mezza faccia, pollice e indice divaricati a sigillare le palpebre.
– “Professore?” – tossicchiò avvicinandosi. De Michele teneva ancora gli occhi chiusi ma aveva sollevato il mento, succhiando rumorosamente l’aria stantia della stanza.
– “Professore, mi scusi… c’è ancora quel Bironci… Ma la vedo stanco. Posso sbrigarmelo io, se crede.”
– “Bironci… Bironci…” – De Michele aprì gli occhi su quel giovane barbuto, pedante. Non gli piaceva il dottor Fabio Vanzi. Troppa barba. Troppo serio. Appesantito. Una testa grossa, piena di chissà quali concrete realtà immaginate. Eppure, con tutte quelle realtà pesanti in corpo, qualche volta riusciva persino a sorridere. Sorrisi forzati che macinavano realtà. Mi vedi stanco, eh, professorino? Sono stanco, sì. Tu non sai quanto sono stanco. Se mi osservi bene potrai persino indovinare il giorno in cui prenderai il mio posto.

Da un po’ di tempo non gli piaceva nessuno, nell’Istituto, neppure gli assistenti che si era scelto. Non gli piaceva l’intero Dipartimento di Fisica. Non gli piacevano le tesi che lui stesso elaborava e assegnava ai laureandi. Quel Bironci, ad esempio… “Simmetria delle particelle elementari”: tesi stupida. Un altro fascicolo a spazio due ben rilegato da archiviare in facoltà. Sarà quasi completamente copiato da una serie di miei vecchi articoli, pensò. Chissà cosa dirà ancora sulle oscillazioni dei neutrini massivi? Cosa avrà estrapolato quella piccola mente in merito alla materia oscura?
– “Ah, sì: Bironci… Bironci…” – farfugliò – “Lei ha seguito il suo lavoro?” – La testa barbuta del dottor Vanzi oscillò un poco e un sorriso d’assenso si indovinò sotto la barba e nei suoi occhi scuri. Commovente dedizione da leccaculo – pensò De Michele – ma sì, pensaci tu al Bironci, macinate assieme le vostre realtà.
– “Bene, bene, caro Fabio, faccia pure lei” – proseguì – “e non si preoccupi troppo per me. Non sono troppo stanco. Solo gli occhi, sa?, la luce…”.

Stanco?, si disse scendendo lo scalone del Palazzo delle Scienze, appoggiandosi alla larga ringhiera di marmo mentre i busti e gli occhi vuoti dei personaggi appollaiati sopra i piedistalli lo infastidivano con la loro immortalità di pietra. Quelle pupille incise nel marmo ingiallito lo seguivano, scrutavano il suo incedere oscillante, i suoi timori, i suoi sogni. La sua stanchezza.
In strada, le luci e i colori lo colpirono con violenza: i bianchi, spezzati, rifratti dalle vetrine. I blu, i verdi delle insegne, i gialli, i rossi ammiccanti dalle auto. Quei fotoni pulsanti attraversavano il fumo colorato che s’alzava dai tubi di scappamento e sembravano volersi insinuare nel suo cervello, dirgli qualcosa, ricordargli qualcosa. Forse restituirgli, ancora una volta, il suo attimo di onniscienza e onnipotenza, già perso tra le fisionomie odiose del Vanzi e del Bironci e i pensieri ormai aggrovigliati di carte, scendere, scale, marmi, attraversare, semaforo, semaforo, rosso, giallo, verde, affanno, casa…
* * *

Bisognava pensare a come tornare a casa, pensare intensamente ma con cautela. Con metodo. Pescare una cosa alla volta in quella matassa di serpi che gli si muoveva dentro. Autobus quattro… quattro… Sì quattro-due-cinque. Penultima fermata. La gente sarebbe quasi tutta scesa prima. Corso… Corso… Sì, Corso Buonarroti! La fermata all’angolo di casa… Bella periferia. Anche il capolinea gli andava bene: avrebbe fatto un tratto a piedi, a ritroso.
Pensare a casa, ecco: tutto diventava più facile a casa: gesti ripetuti, parole solite, stanchezza comprensibile dopo il lavoro, piccole manie accettate da una governante straniera e molto disattenta. Era ancora abbastanza facile mentire a casa.
Pensare, pensare intensamente: una cosa alla volta. A sua moglie Ivana, ad esempio. Ecco: doveva pensare al suo viso. Era bello quel viso. Dopo cena l’avrebbe ricostruito ancora una volta aiutandosi con le foto sparse per casa. Avrebbe alzato la ribaltina del pianoforte e tentato di sentire ancora il calore delle sue dita strisciando le mani sui tasti. Poi si sarebbe seduto sulla poltrona di velluto e un pezzo di Bach, suonato da lei, forse gli sarebbe affiorato nel cervello. Lo stesso pezzo, da anni. E c’era dell’altro, tanto altro da ricordare, anche se oggi, dopo dieci anni, la sua Ivana sembra diventare ogni giorno di più quasi solo un nome, un viso di carta e lente vibrazioni di note vaganti in una stanza silenziosa.
E Luigi? Quando è stata l’ultima volta che aveva visto suo figlio? Luigi, Luigi… C’era un oceano che lo divideva. Lo divideva da lui una carriera, una cattedra all’altro capo del mondo. Doveva focalizzarlo bene, il suo Luigi. Alto, magro, e il viso… Tendeva a dimenticarlo quel viso, doveva aiutarsi ancora con le foto ormai datate. Ora, ripensandoci, gli appariva un volto estraneo, quasi non fosse quello di suo figlio ma appartenesse ad una realtà altrui, o almeno lontana, troppo lontana, effimera come le strisce rosse delle auto sull’asfalto.
Sì, doveva pensare con metodo: una cosa alla volta.

Da due mesi prendeva le pillole. Le teneva nascoste in fondo a un cassetto della scrivania, in Istituto. Fingeva di scrivere roba nuova, copiava brani dei suoi vecchi articoli e li archiviava sopra le pillole. Pasticche bianchiccie, patetiche, buone per restare sveglio quel tanto da consentirgli di ripetere le sue scarne lezioni e i soliti commenti ai diagrammi disegnati dagli assistenti. Roba vecchia: il Dipartimento accetta ancora roba rimasticata da chi una volta è stato in contatto diretto con la Scuola di Copenaghen.
Per quanto tempo ancora?
Autobus quattro-due-cinque, penultima fermata. L’effetto della medicina tende a diminuire. Ancora un paio d’ore prima di essere inghiottito definitivamente dalla nebbia. Adesso la nebbia s’alza solo dal fumo che esce dalle marmitte delle auto. Riesce a non esserne inghiottito. Automobili ferme al semaforo: passare sulle strisce.
Autobus quattro-due-cinque. O quattro-cinque-due? La fermata è quella. Sì, è quella. C’è un mucchio di gente. Chiederò. Dirò: per Corso… Come si chiama quel Corso…? Oh Dio, quel Corso ha un nome lungo, quel Corso… e la mia casa è alla penultima fermata, proprio la penultima, ma va bene anche il capolinea facendo un pezzo a piedi.
Quattro-due-cinque: arriva un autobus giallo, enorme. Sarà quello. Un autobus semivuoto per il professor De Michele.

Il piccolo medico che lo ha in cura lo chiama di rado “professore”. Solo quando lo accoglie in studio e deve alzare lo sguardo sulla sua figura imponente. Non ripete il titolo, da seduto, scrivendo la ricetta. Lo fissa intensamente al di là della scrivania: De Michele conosce bene quello sguardo: un esame andato male. Lui dice ancora ai ragazzi: sù, riprenda il libretto, riprovi nella prossima sessione. Non le voglio rovinare la media. Quel medico no. Quel piccolo medico è basso, gracile. Un filo di medico. Però non gli dà la stessa opportunità.

Il professor De Michele siede al centro dell’autobus, vede salire ancora gente. Un giovane in jeans e maglietta lo fissa e distoglie subito lo sguardo. Non è poi tanto giovane. Avrà l’età di mio figlio, pensa. Gli jeans sono zeppi di cinghie e borchie, vuol sembrare più giovane. Chissà come veste Luigi. Ho intravisto qualcosa in quegli occhi. Forse si è accorto del mio stato. Pietà?

Il professore gira lo sguardo verso il finestrino, l’autobus si è mosso, gli corrono incontro gli alberi spogli, girano attorno alle case come spaventapasseri, ruotano su se stessi sbeffeggiandolo con rami ossuti.
Forse succederà anche adesso, pensa, succederà di nuovo. Forse sta succedendo! Ecco, forse riesco a vedere ancora, intravedere ancora, solo per un momento.
Oh, Dio, fallo, fallo. Fallo succedere ancora, ti prego! Ma devo stare attento. Devo osservare molto attentamente. Chissà se è vero che osservare un sistema lo forza a divenire reale… Bhor, de Broglie, Schrodinger, Heisenberg, Dirac, dove siete? Nomi, nomi, nomi! Siete solo nomi? Mi invadono la testa i vostri nomi, le vostre teorie! Aiutatemi voi, se Dio è distratto! O forse anche voi mi avete imbrogliato…

La nebbia avanza, si chiude come un sipario tra i nomi. Il quattro-due-cinque attraversa veloce vie e piazze sconosciute.
Eppure un briciolo di verità, un indizio… devono pur essere un indizio questi sprazzi di luce, queste visioni, questi sogni… Avrà un senso questo senso di chiarezza e onnipotenza che mi assale proprio quando s’alza la nebbia dell’alzheimer…

* * *

Strade e strade. Un viale dritto e alberato. Al centro un tram modernissimo corre veloce in sede propria fra le siepi e supera l’autobus. Il professore non aveva mai visto quel tram e quelle siepi tornando a casa. Dove stiamo andando?
– “Scusi…”
– “Si?”
– “Dov’è la penultima fermata, quella prima del capolinea?”
Il guidatore volge appena lo sguardo. Gli fa un rapido esame. Come tutti, da un po’ di tempo.
– “Corso Montegrappa? L’avverto io. Stia qui.”
– “Corso Montegrappa… No, no. Scusi, sa, ma non è corso Montegrappa… E’ Corso… Corso…, beh, mi sa che ho proprio sbagliato autobus. Devo scendere alla prossima, tornare indietro. Grazie.”
La portiera dell’autobus si apre con un sospiro triste fra il pulsare del motore in folle. Il professor De Michele scende piano, si guarda attorno, attraversa la strada deserta avviandosi verso la nuova fermata.
Un altro autobus lo porterà indietro. Basta aspettare.

Per ingannare l’attesa il Professore De Michele riprende il filo dei suoi pensieri. E se fosse proprio così? – pensa – Se tutto fosse davvero un grande sogno? Qualcuno l’ha pensato, dopotutto, qualcuno l’ha pure scritto. Un sogno che non può essere costretto in formule e diagrammi, ma pur sempre un sogno. Un grande sogno sognato da qualcuno, da qualcosa …
De Michele passeggia nervoso davanti alla pensilina: pian piano la sua figura grande ma curva si raddrizza, il mento s’alza, lo sguardo punta in alto verso un cielo nero in cui si indovinano le stelle.
Tutto questo è un sogno?, sussurra, è irrealtà? Perché no? In fondo il sogno, l’irrealtà non sono entità astratte. Hanno una qualche dimensione fisica concreta. Con regole che noi non conosciamo, diverse dalle solite. Forse c’è un capovolgimento… e restando all’interno di un sistema…

Pian piano le siepi, il cartello dell’Azienda Municipalizzata Trasporti, i cartelloni pubblicitari, si modificano, diventano i suoi discenti, una vasta platea di studenti attenti, con il blocco degli appunti davanti, seduti nell’anfiteatro di fisica teorica. Lui ha una lunga lavagna dietro le spalle, vede l’intero anfiteatro pieno di volti chiari, senza fisionomia, ma sa che sono i suoi allievi e sa che deve usare tutta la potenza e l’incisività della sua voce.
– “Sì, cari Signori, forse quella che chiamiamo realtà, è davvero un gran sogno! Certo occorrerà superare una qualche barriera… Potrà essere necessario scavalcare un ostacolo fisico o una qualche soglia di probabilità. Occorre uscire dal sogno per poterlo realmente esaminare dall’esterno. E forse per fare questo bisogna prima entrare nella condizione di chi è sospeso fra la vita e la morte o nel sonno del coma o in quello dell’alzheimer…”

Il professore si ferma un attimo e si concede un sorriso pensando che qualcuno o qualcosa si diverte da qualche parte, lassù, a creare sogni. Sogni così articolati, minuziosi, concreti e duri come pietra e acciaio che diventano, appunto, pietra e acciaio. Sogni d’acqua e d’aria che diventano mari, laghi fiumi, atmosfera… Sogni di luce.
Poi De Michele alza di nuovo gli occhi al cielo. Il cielo è limpido stasera. Le stelle qui si vedono poco, ci sono troppe luci a velarle. Ma si indovinano. Qualcuna più fulgida riesce ad ammiccare tra i tetti di lamiera dei capannoni. Ecco le Stelle: Soli che ruotano lontani, senza senso, legati nella melassa della forza di gravità: palline di giochi infantili.
– “E’ questa la realtà?” – prosegue – “Cari Signori, dovete convenire con me che si è raggiunto il massimo dell’ironia: noi qui, nell’austero anfiteatro del Dipartimento di Fisica teorica stiamo studiando un sogno, analizziamo l’irrealtà. Ecco cosa stiamo facendo: studiamo un sogno pieno di palline colorate appese ai fili invisibili di un burattinaio impazzito… Ed il Dipartimento di fisica alimenta un sacco di bugie, sia pure in buona fede; e in buona fede spende soldi e risorse assorbendo assiomi di squilibrati professori che tentano di dare un senso ai sogni chiamandoli con i nomi più strani. Assume gente, il Dipartimento. Tanta gente. Gente come me, come i miei assistenti, come i tecnici. Ingegneri che rincorrono le parti del sogno, che lo spezzano in piccolissime scintille per dimostrarvi che esiste una realtà. Gente che vi anestetizza con discorsi su qualcosa che non esiste! ”

Il professore punta l’indice sul manifesto di una ragazza in bikini che pubblicizza un olio solare, poi lo sposta su una folla che occhieggia da un altro manifesto, delirante attorno ad un immenso telefonino.
– “E voi, e voi, cari Signori, non stupitevi se la prossima tornata di tesi avrà come tema “La fisica del sogno”. Cosa dite? Che non sembra un tema di fisica teorica? Ed invece sì, che lo è! E non è un tema facile, credetemi: è difficile analizzare un sogno standovi dentro. Perché di questo si tratta. Siamo tutti immersi nel sogno di una inesistente realtà! Tutti invischiati in una schifosissima melassa! Tuttavia…”
De Michele si è già allontanato dalla pensilina. Ora è fermo sotto un albero. Tace. Il professore un tempo era famoso per i suoi silenzi: davano un senso d’attesa. Preludio di nuove rivelazioni.
Intanto un autobus passa veloce e scompare nel viale lasciando tremolare le foglie per l’aria smossa. Una scia di luci rosse, resta ancora visibile per un po’: luci minuscole, sempre più deboli.
– “ … tuttavia, dicevo… io credo che sia possibile! Sì, è possibile! E’ appena accaduto! E’ accaduto a me, cari Signori! A me, ad un malato di alzheimer, ad una mente divorata, distrutta, ormai senza connessioni stabili, durature. Vi stupite? E invece no: non dovete. E’ l’unico mezzo possibile, credetemi, l’unico strumento, l’unica possibilità!”

Il professore cammina piano lungo il viale, apre un grosso cancello sgangherato e alle enormi facce dei cartelloni pubblicitari si sostituiscono le carcasse impilate di auto e di moto, batterie e copertoni, ma sono sempre quei volti chiari, senza fisionomia che lo seguono dai banchi dell’anfiteatro.
Il professore è al centro dello spiazzo di uno sfasciacarrozze e, prendendo un ferro da terra, traccia segni sulla polvere di una portiera ammaccata.
La luce di un lontano lampione proietta ombre incerte sulle lamiere contorte: l’ombra del professore, come una grossa sagoma nera, si muove e gesticola davanti a quella strana lavagna.
– “Sollecito la vostra attenzione, cari signori, sulla rappresentazione grafica del sogno che sto per fare” – la sua voce ora è roboante, sa che l’uditorio è numeroso, anche se lo vede appena nella luce falsa del lampione. Grida quasi. Anche l’ultima fila di studenti, lassù, deve sentire.
Il professore disegna un cerchio. Un punto al centro. Linee, esterne al cerchio si perdono ai confini della portiera rugginosa.
– “Non mi dilungo sulla impossibilità, al momento, di una completa rappresentazione matematica. E’ vero: nel grafico alcuni termini dell’equazione non hanno ancora trovato corrispondenze nella nostra disciplina. Però non dispero, Signori, non dispero…”.

Gli operai più mattinieri trovarono il professor De Michele, esausto e sudato, con in mano la biella di un motorino, che, con la bava alla bocca, ancora tracciava strani segni sulla portiera ammaccata gridando parole incomprensibili. Perplessi ascoltarono un poco e tentarono di calmarlo prima di chiamare l’ambulanza.

Enzo Maria Lombardo

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